«Questo governo è un suicidio. E Salvini andava sconfitto sul campo»

«Non si può sempre sventolare un pericolo: una sinistra senza popolo lascia il popolo alla destra». Parla Mario Tronti, padre dell’operaismo

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«Quest’accordo per il Pd è un suicidio assistito». Alla soglia dei novant’anni (ne ha compiuti 88 lo scorso luglio), Mario Tronti, uno dei più rilevanti pensatori della sinistra italiana, dice la sua sul governo giallo-rosso. E il suo pensiero è, come sempre, urticante. Il suo ultimo libro scritto a quattro mani con Andrea Bianchi, (“Il popolo perduto”, Nutrimenti) che contiene un’analisi impietosa della storia del post-comunismo italiano e ne stronca senza appello il ceto dirigente.

«È stato accolto con grande entusiasmo dal basso e con un silenzio assordante dall’alto», dice nella sua bella casa di Roma, al Laurentino, la periferia metropolitana dove vive. Ma non vi azzardate a chiamarlo “filosofo”, titolo che pure gli spetterebbe: «Sono un militante che pensa la politica», dice di sé rivendicando con orgoglio la sua provenienza. «Il mio approccio con la politica nasce dal basso», racconta. «Sono nato e ho vissuto nel quartiere Ostiense di Roma, una periferia urbana, i miei lavoravano ai Mercati generali, mio padre faceva lo scaricatore ed era comunista, mia madre aveva un banchetto, forse è per questo che non riesco a stare con chi la sera va all’auditorium contro chi la mattina si alza alle sei. La mia prima educazione è avvenuta leggendo l’Unità, in particolare i discorsi di Togliatti che leggevo sottolineandoli con la matita. Gli operai e i tramvieri della sezione Ostiense del Pci dove mi sono iscritto negli anni ’50, sono stati la mia scuola politica. Dal basso sono risalito verso l’alto. Io sono stato selezionato e formato dal partito, e sono diventato quello che sono. Un processo politico e culturale. Altro che un partito dove si portava il cervello all’ammasso. I compagni della mia sezione erano critici e liberi».

La sua origine di classe diventa anche il fulcro della riflessione politica e teorica del principale teorico dell’operaismo italiano (“Operai e Capitale”, pubblicato da Einaudi negli anni ’60, ne è la bibbia). Un’eresia minoritaria, nata con i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri, sviluppata con Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa e altri, che ha demolito l’impianto dell’ortodossia comunista storicista e gradualista, cogliendo l’irrompere sulla scena della nuova classe operaia della grande fabbrica fordista. Non c’è un cammino graduale che inevitabilmente conduce al sol dell’avvenire bensì la “rude razza pagana” che diviene il motore dell’azione: e la sua soggettività politica che unisce il popolo, altrimenti massa indistinta: «Rivendico la libertà del mio percorso culturale che mi ha condotto a incontrare l’operaismo. L’anno di svolta per me fu il ’56, quando ero segretario della sezione universitaria. Fui uno dei firmatari della lettera dei 101 contro l’invasione dell’Ungheria. Con l’operaismo quel basso di cui parlavamo è diventato la grande fabbrica del Nord, ai cui operai ho dedicato il mio libro più importante, “Operai e Capitale”».
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Alto e basso, cultura e popolo, filosofia e borgate, militanza e studio, fin dalle origini familiari. Così se si indaga un po’ ecco emergere la figura che non t’aspetti, la presenza straniante: Renato Fiacchini, in arte Renato Zero, suo cugino. Sì, il cantore dell’operaio massa, il raffinato cultore dei filosofi tedeschi e il menestrello delle borgate, il poeta delle periferie metropolitane, che convivono e non solo per destino familiare, ma perché in quel grande magma che sono state le periferie romane la vita è sempre stata fluida, uno scorrere di piani che possono anche disorientare chi non c’è abituato. C’è chi sceglie di vivere la propria condizione culturale come superiorità estraniante, rinchiuso in torri e castelli, e chi invece magari la sporca con la vita reale: i figli che ti sparano il rock in casa mentre magari stai scrivendo “Operai e Capitale”, tuo cugino, cresciuto qualche isolato più in là, che raduna folle di ragazzi e ragazze adoranti, e che magari ti vedi spuntare in una festa a sorpresa per i tuoi 80 anni. «Anche se io amo la musica classica voglio molto bene a Renato e certo mi ha aiutato a comprendere meglio i sentimenti del popolo», dice con un sorriso affettuoso Mario Tronti. Ora però è il momento di capire cosa pensi di questa pazza estate.

È nato un governo giallo-rosso. Salvini con la sua destra xenofoba, sovranista e illiberale è all’opposizione. A sinistra c’è da esultare?
«L’attuale esecutivo è nato come il governo Grillo-Renzi. Sono stati loro gli apripista, l’uno portandosi dietro i 5Stelle, l’altro portandosi dietro il Pd. Sono i due soci di maggioranza, che controllano i rispettivi gruppi parlamentari, e staccheranno la spina quando farà comodo a uno di loro. Ho sempre sospettato che tra Grillo e Renzi, ci fosse un’affinità. Hanno in comune alcuni fondamentali di questo triste tempo: 1. l’antipolitica; 2. l’intento di distruggere i partiti politici, per lasciare libero campo a movimenti personali; 3. l’idea del Parlamento scatoletta di tonno».

Ma se Renzi è uno dei vincitori, perché ha deciso di uscire dal Pd? Non poteva rimanere e prendersi il partito?
«Ha cinicamente buttato il Pd nelle braccia dei 5Stelle, per distruggerlo e costruire sulle sue ceneri la propria cosa».

A sinistra sono poche le voci che si sono levate a criticare la svolta giallorossa: Leu è entrata nel governo, D’Alema l’ha benedetta, Revelli sul manifesto invoca “un governo di salute costituzionale”, Asor Rosa tifa a favore, Bettini l’ha ispirato. Hanno tutti torto?
«Questo accordo è per il Pd un suicidio assistito. Non si fa un’alleanza di governo tra un partito e una piattaforma. Li ho avuti davanti i grillozzi, come giustamente li chiama Giuliano Ferrara, in Senato, la passata legislatura: quanto basta per non andare a prenderci nemmeno un caffè. Mai, mai, da parte dei fautori dell’abbraccio, un’analisi di che cos’è quella roba lì, come è nata, come è cresciuta, soprattutto del perché è potuta nascere e crescere. È un delitto politico averli salvati, mentre affondavano, dopo la disastrosa esperienza di governo e averli rimessi, non solo in campo, ma al centro. Spero veramente di sbagliare, ma sapete come andranno le cose? Loro continueranno a fare demagogia populista, aumentando consensi, il Pd curerà il rigore dei conti perdendo consensi. La distribuzione dei ministeri dice questo».

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23/9/2019
C’è chi paragona questa con altre fasi di svolta politica: il centrosinistra, la solidarietà nazionale. I protagonisti si chiamavano Moro, Fanfani, Nenni, Lombardi, Berlinguer, Ingrao. Oggi?
«Lasciamo perdere questi paragoni con i giganti della prima Repubblica: Moro, Andreotti, non scherziamo, qui c’è Grillo e Casaleggio. Lì c’era la Dc, qui una cosa che scempia il nome di Rousseau. Conte, l’Uomo Qualunque del fu Guglielmo Giannini, finalmente al governo: personaggio in coma profondo per quattordici mesi, risvegliato, l’ultimo giorno, con l’acqua alla gola nel naufragio del governo dei suoi vice, quindi “elevato” a riserva della Repubblica. Ci vorrebbe il Petrolini di Nerone dopo l’incendio per commentare questo spettacolo: “Roma, risorgerà più grande e più bella che pria”…., con il seguito dello sketch, compresi gli applausi della folla».

Due forze che si sono combattute fino a ieri e che si alleano. È l’ennesimo capitolo del trasformismo o è vera svolta politica? Cioè somiglia più al contratto di governo tra Lega e M5S oppure al primo centrosinistra, alla solidarietà nazionale?
«Sono anni che il coro, non della tragedia ma della commedia, ripete: con i 5 Stelle bisogna andare a vedere. E va bene: questa volta andiamo a vedere. Ma come? Ci vai con una delegazione di partito, i capi gruppo a seguire e non ad anticipare, per dire: questi sono i nostri punti di programma, autocritica sul lavoro del precedente governo, Conte, non se ne parla nemmeno, Di Maio fuori dal governo, presentateci facce nuove e nuove idee, e parliamo. Le trattative si fanno così. Ma che cosa hanno studiato di politica, questi signori? Non è vero che i 5Stelle non sono né di destra né di sinistra. Sono, nel loro elettorato, di destra e di sinistra. Alzando la posta, li spaccavi, recuperando quella parte recuperabile. Solo così discontinuità diventava non una parola ma un’idea. Solo così governo di svolta non sarebbe stata, com’è, una falsa notizia».

Non è naturale allearsi in nome del “male minore”, dopo aver indicato in Salvini l’incombente pericolo fascista?
«Lo so, Salvini: questo spettro, alla rovescia, che si aggira per l’Europa! Ricordate le prime pagine del “Manifesto del Partito Comunista” di Karl Marx? “il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi...”. Questa volta: i vescovi e Trump, Merkel e Macron, l’Ue e Prodi, le due sinistre finalmente unite intorno al centro, da D’Alema a Vendola, non a caso nel mezzo Franceschini e poi altri e altri ancora. Mai vista una crociata così potente e così credente in marcia, a fermare i barbari. Salvini: una tigre di carta, un re travicello, che si è svelato in queste settimane per quello che veramente è, un politico dell’improvvisazione e dell’approssimazione. Andava sfidato sul campo e sconfitto in battaglia, con una grande mobilitazione popolare, che avrebbe ridato senso, appartenenza, entusiasmo a un campo di sinistra, che forse aspettava soltanto questo per risorgere. È vero. Si poteva perdere. Ma non c’era il fascismo eterno alle porte. La tentazione di una democrazia illiberale si combatte meglio con una opposizione forte che con un governo debole. Io ricordo sempre a tutti: i lavoratori italiani hanno raggiunto più conquiste per sé con il Pci all’opposizione che con tutti i centrosinistra al governo».

Non è una novità però che la sinistra sappia unirsi solo se individua un nemico.
«Ma possibile che l’unico modo di iniziativa della sinistra deve essere sempre quello di sventolare un pericolo che incombe sulle nostre teste, sempre di segno autoritario, un Annibale alle porte, contro cui chiamare a una union sacrée di tutte le forze responsabili del destino del paese o del continente, sacrificando ogni volta a questo la rappresentanza, la cura, la difesa della propria parte, con il risultato di consegnarla a un’altra parte? La Lega di Salvini è la destra di oggi, dura e pura, nazionalista e xenofoba. Ha un merito: una destra che non si nasconde più dietro un centrodestra. Opportunità per costruire e organizzare una sinistra che non si nasconda più dietro un centrosinistra. Una sinistra, in quanto tale, a vocazione maggioritaria, capace di competere con la destra sul terreno democratico del consenso popolare. Un sogno? Sì, forse. Ma forse ad oggi solo un sogno può risvegliarci da un incubo. La storia del Novecento ci ha consegnato una lezione magistrale: una sinistra senza popolo lascia il popolo alla destra».

Il fatto che il Pd torni al governo senza essere passato dalle urne elettorale è un limite di questo governo oppure è la normale dialettica della democrazia parlamentare che si afferma sulle pulsioni populiste?
«Io sono convinto che gran parte del popolo perduto della sinistra sia oggi collocato nell’enorme bacino dell’astensione. Lì c’è molto meno di un tempo il rifugio del qualunquismo. Questo è stato sdoganato e rappresentato proprio dall’operazione 5Stelle. E sono rimaste invece molte persone senza casa, sfiduciate nella consapevolezza di non trovare in campo un’offerta politica di radicale trasformazione dello stato presente delle cose. Il Pd e la sinistra tutta avevano proprio bisogno di una cura ricostituente di opposizione. Invece che di nuovo nell’alto del governo avevano bisogno, l’uno e l’altra, di essere gettati di nuovo nel basso del sociale, che non conoscono più, perché non abitano più lì, non frequentano da tempo più quei luoghi».

Tornando al governo in questo modo il Pd e la sinistra possono ritrovare quel “popolo perduto”, di cui parli?
«Primo compito urgente del che fare: andare a riprendersi il proprio popolo. Ma ci vuole un cambio di cultura politica. Una sinistra semplicemente non esiste senza una cultura del conflitto, prima di tutto sociale e su questa base politico. Nicola Zingaretti ha avuto in queste settimane la sua occasione. Doveva puntare i piedi, mettere in gioco la Segreteria, dire io non ci sto, sfiduciatemi. L’occasione era quella di arrivare alla resa dei conti con questi capi corrente, governisti ad ogni costo, promuovere una nuova leva di dirigenti militanti, organizzatori delle lotte, politici di vocazione oltre che di professione, portati per natura a passare la loro giornata insieme agli uomini e alle donne semplici, come si diceva una volta, gomito a gomito con il disagio del lavoratore sottopagato, le sofferenze delle famiglie lasciate sole, la disperazione, sì, la disperazione, del licenziato, del disoccupato, del precario, della casalinga che a fine mese non può fare la spesa, a condividere il dolore delle troppe, troppe, vittime sul lavoro: e venire così riconosciuti come loro simili, non come l’alieno che viene da un altro pianeta. Questo mondo reale non lo vedi dalle auto blu ministeriali. Certo che bisogna andare ad amministrare, a governare, che è poi da lì che puoi fare di più e meglio per loro, ma un conto è se ci arrivi meritandoti un mandato di fiducia dal basso, e lo mantieni conquistando risultati concreti, un altro conto se ti affidi sempre ai trucchi di una legge elettorale, o peggio, alla solita congiura di palazzo. Il popolo della sinistra, non i soliti benestanti benpensanti, che ne hanno preso il posto, quel sociale disperso di persone che lavorano e soffrono, sì, lavorano e soffrono nello stesso tempo, questa materia viva, seria e silenziosa, oggi senza parola nell’età della comunicazione, ha bisogno di una messa in forma: una forma che la riunifichi e la riporti in campo come soggettività attiva. Questo popolo della sinistra ha bisogno di una classe dirigente alla sua altezza, ha necessità di selezionare un ceto politico collettivamente carismatico, una élite competente e sapiente, che riscopra la passione della lotta e che sappia a sua volta esprimere, certo, anche la figura del capo, provvisoriamente riconosciuto. Mi dispiace dovermi esprimere con questa cruda durezza, anche nei confronti dei miei compagni di viaggio. Non è nel mio carattere. Ma ci sono dei passaggi in cui l’etica della responsabilità va declinata bene e messa bene in rapporto all’etica della convinzione».

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