
Era la politica, un tempo, quel principio: la politica dei grandi partiti nazionali che avevano fondato la Repubblica, aveva ereditato la società di massa dal fascismo e avevano spedito nei libri di storia la vecchia classe dirigente dello Stato unitario, i notabili liberali con le loro rivalità, i loro odi insopprimibili, le loro improvvise riappacificazioni. Quando, alla fine del 1945, il governo dell’azionista Ferruccio Parri era caduto, il capo del Pci Palmiro Togliatti era intervenuto a favore della candidatura del democristiano Alcide De Gasperi con un’intervista al francese “Ce Soir”: «Mi hanno detto che ci sarebbe una forte preoccupazione per la presidenza De Gasperi da una parte nei vecchi residui massonici, dall’altra parte nei gruppi cattolici conservatori. Curiosa coincidenza. De Gasperi è a capo di un partito che ha basi di massa. Questo solo lo rende a noi più accetto di quegli uomini politici cosiddetti “indipendenti” che non rendono conto del loro operato altro che ai loro quattro amici e alla loro vanità».
Nasceva così la Repubblica dei partiti, come l’ha chiamata una volta per tutte lo storico Pietro Scoppola. I partiti di popolo, con i loro riti, i congressi, le correnti, il manuale Cencelli per le spartizioni di potere, divisi dalla guerra fredda e da Jalta e uniti da una comune idea della politica e del Paese. La continuità e la stabilità del sistema era assicurata dagli apparati dello Stato e dalle scelte internazionali, l’atlantismo e l’europeismo, la partecipazione democratica era garantita dai partiti e dal reticolo di sindacati, associazioni e dalla Chiesa, la tensione verso il nuovo era figlia di una società vivace, di una crescita economica impetuosa tra gli anni Cinquanta e Sessanta e di una Costituzione nei cui principi fondamentali era fissato il compito di «rimuovere gli ostacoli» che impediscono la piena uguaglianza tra i cittadini.
Quel sistema era entrato in crisi alla fine degli anni Settanta. Era finito per le sue colpe: l’immobilismo, la sordità ai tempi nuovi, la degenerazione, la corruzione. Era finito per i suoi meriti: la società italiana era cresciuta, non tollerava più di essere tenuta per mano dalla politica come un’infante incerta e ribelle, pretendeva di rappresentarsi da sola, anche in modo violento. Era stato il terrorismo rosso ad intestarsi il cambiamento di fase più drammatico e cruento, l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo che più di tutti si era intestato la difesa dell’ordine e l’esigenza del cambiamento con gli strumenti della politica, l’intelligenza degli avvenimenti, la flessibilità, l’esigenza di fare entrare aria nuova nei corridoi del Palazzo. Dopo il 1978 e dopo Moro la ricerca del cambiamento e di un nuovo principio d’ordine si era spostata dai partiti alle istituzioni. Era il 28 settembre 1979, esattamente quarant’anni fa, quando il giovane segretario del Partito socialista Bettino Craxi scrisse un editoriale sul quotidiano del Psi “l’Avanti!” intitolato “Ottava legislatura”: «In mancanza di un punto di riferimento il filo rischia di spezzarsi in modo irrimediabile. Si aprirà così il varco verso una fase più oscura della crisi politica e della crisi dei sistema; il fossato della sfiducia che separa ed allontana i cittadini dalle istituzioni si allargherà ancor più e pericolosamente... Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e a due passi dalla crisi delle istituzioni...». L’idea della Grande Riforma veniva da un leader iper-politico che non disdegnava di utilizzare i toni dell’antipolitica. «Se all’idea della Riforma si continuerà a contrapporre il gioco delle formule dietro cui si nasconde a mala pena la realtà di un sistema in crisi», avvertiva Craxi, «non è difficile prevedere quanto aspri si faranno i conflitti sociali e politici. Tutto sarà allora imprevedibile, tranne l’aggravarsi della ingovernabilità del paese e di un più acuto e paralizzante logorio delle istituzioni».
Questa fase, durata decenni, era la vera premessa di un’altra cesura dolorosa, il 1992-93 di Mani Pulite e dell’alba travagliata della Seconda Repubblica, mai davvero nata nella realtà. Perché il ricambio brutale della classe dirigente, con l’uomo della Grande Riforma condannato in via definitiva e morto ad Hammamet venti anni fa, non ha coinciso con una riforma delle istituzioni e ancor meno dei comportamenti. Il ventennio berlusconiano è stata la lunga incubazione dell’oggi: una destra che abbandona la moderazione per diventare smodata, una sinistra che si dilania nella ricerca dei contenitori nuovi senza riuscire a darsi una forma. Dopo l’Ulivo di Romano Prodi, che aveva come presupposto il sogno del bipolarismo e del sistema maggioritario, l’unico a giustificare le elezioni primarie e la presenza di diverse culture politiche in una sola formazione, il Partito democratico, dopo il voto del 1996 e del 2006 la sinistra non è mai riuscita ad andare al potere con una vittoria elettorale. Intanto, cresceva la voglia del nuovo sotto le sue diverse forme: i tecnici (Mario Monti), i cittadini comuni (Beppe Grillo), i giovani (Matteo Renzi).
Forme di ricambio di classe dirigente, sperimentate e fallite, che non hanno tenuto conto di un principio d’ordine che non c’era più. Il sistema si è spostato: dalla piccola Italia all’Europa, fino al mondo globalizzato. La società fa sempre più a meno della politica come leva privilegiata per cambiare le condizioni materiali di vita, ma sposta sui politici ogni sua frustrazione. La Rete e i social hanno abbattuto quel che restava delle antiche organizzazioni, le mediazioni, si sono trasformati nel circuito e nel cortocircuito delle leadership, il campo di gioco ideale per i populisti, fino allo spettacolo mortificante delle istituzioni appese al risultato della piattaforma Rousseau. È diventato sempre più difficile costruire o difendere culture politiche, ideologie, valori. Per questo, come ha scritto in questi giorni il gesuita padre Antonio Spadaro, «poi forse avremo tempo per chiederci se questa è stata davvero solamente una crisi politica. O non piuttosto una crisi culturale e spirituale». Su questo tema, c’è la bella intervista di Gigi Riva a Olivier Roy sul nuovo Espresso: i sovranisti, i populisti recuperano madonne e rosari, ma sono figli della secolarizzazione, di un deserto di idee e pensieri. Rappresentano gli “Stati nervosi” di cui parla William Davies nel suo libro (Einaudi): la paura, la rabbia, la mancanza di riconoscimento e il desiderio di trovare un ruolo per la propria personalità nell’ansioso mondo globalizzato.
Tutto questo spiega il contesto in cui si è mossa la crisi politica italiana dell’estate 2019. Nel più ampio quadro europeo. L’estate 2019 sarà ricordata come la stagione in cui la politica europea si è messa in movimento per debellare il virus prodotto da anni di austerità cieca e di mancato ascolto degli sconvolgimenti sociali che la crisi ha provocato. In Austria il governo populista è scivolato sulle connessioni con la Russia. In Inghilterra Boris Johnson ha fatto irruzione sul palco come un ciclone, con le sue cattive maniere, la sua mala educación, ha messo i piedi sul tavolo e non solo su quello di Emmanuel Macron, poi ha provato a chiudere il Parlamento inglese per blindare la sua Brexit, ma i deputati si sono ribellati e hanno buttato giù il suo governo. In Italia Matteo Salvini non ha capito che la fase stava cambiando ed è finito intrappolato nella sua stessa macchinazione. Voleva diventare il capo della nuova Italia per fare la nuova Europa, a fianco della Russia, come aveva recitato Gianluca Savoini nel suo preambolo politico all’hotel Metropol, è rimasto a capo dei freaks, i mostri delle nazioni europee. I populisti di varia natura sono stati imbrigliati da quell’insieme di regole, liturgie, trabocchetti, vetusto quanto si vuole, che si chiama democrazia parlamentare. Ma la loro sconfitta politica non sposta di un millimetro il macigno che si pone di fronte alla sinistra europea e italiana.
Restando all’Italia, il nuovo principio d’ordine che si prova dopo tanto peregrinare è il mix inedito tra la nuova oligarchia della piattaforma Rousseau, i 76 mila grandi elettori che tutto il mondo ha guardato, secondo Davide Casaleggio, e il vecchio trasformismo incarnato da Conte. Quello che fa dire a Di Maio: uno vale uno, il Pd vale la Lega, contiamo noi, i Cinque stelle, chi vuol fare un governo da noi deve passare. La rivendicazione della centralità è la premessa di nuovi cambi di fronte nel cammino della legislatura. Non è detto che si arrivi al 2023 con questo governo e neppure con questa alleanza. Tutto è possibile, dopo la crisi dell’estate.
Nell’abbraccio estivo, finiscono le spinte primordiali dei due partiti, la loro vocazione, la loro ambizione. Per M5S era il vaffa, l’attacco al sistema: ora sono diventati il partito del Palazzo e del governo, pronti a tutto per restarci.
Per il Pd, il rischio è definitivo: abbandonare per sempre la vocazione maggioritaria, quella che ti spinge ad avere il migliore progetto di governo, una classe dirigente adeguata, un’organizzazione radicata nel Paese. Era l’ambizione per cui il Pd è nato: un progetto per il Paese, vincere e governare. Nulla di tutto questo. Si prepara il ritorno alla legge proporzionale, come nella mitica Prima Repubblica dei partiti, ma nel frattempo i partiti non ci sono più. E dunque la sinistra torna al governo, ma senza il voto popolare, senza il popolo, o almeno un popolo, alle spalle. I sorrisi, gli applausi, gli auto-elogi compiaciuti che si sono stampati nei giorni delle trattative all’uscita di Palazzo Chigi, le standing ovation, i neo-ministri senza voti che si fanno i complimenti sono la spia migliore (o peggiore) che nulla di quanto ha provocato la storica sconfitta del 2018 è stato non dico risolto ma almeno affrontato. Perché il Pd non è il protagonista della svolta, maturata nello scontro fratricida dentro la maggioranza di governo tra Lega e M5S, e rischia di essere un comprimario nella nuova maggioranza, con i suoi ministri sbiaditi e le idee ancor più indefinite. La nomina di Roberto Gualtieri al ministero dell’Economia è l’unica novità del governo, una vera discontinuità con le precedenti stagioni: da trent’anni, da Guido Carli in poi, il ministero del Tesoro e poi dell’Economia è stato affidato a un tecnico, con qualche variazione sul tema (Giulio Tremonti).
Gualtieri, invece, è un politico, uno storico formato alla scuola di Beppe Vacca, iscritto alla Fgci, i giovani comunisti romani guidati all’epoca da Nicola Zingaretti, in corrente con Matteo Orfini e (all’epoca) con Stefano Fassina. Il suo asse con Paolo Gentiloni alla Commissione Ue è la sfida che il nuovo governo deve vincere, provare a cambiare sistema in Europa: il principio d’ordine dei prossimi anni si trova lì, è in Europa che il sistema democratico rinasce o muore.
Il resto sta nell’elasticità, la gommosità, la vaghezza delle identità che corrisponde al Grande fratello, alla X Factor che è diventata la politica, con il suo meccanismo di televoto e il click contrabbandato per cittadinanza attiva. In questo senso il Movimento 5 Stelle, o quello che sarà, appare più attrezzato del Pd. Ha la premiership con Conte, il premier più evanescente e incolore, e la leadership con Beppe Grillo, che lancia una visibile Opa sul Pd. La sinistra torna al governo, ma è nuda.