
Niente di tutto questo: l’interesse era per un’altra regione. Italiana, però. Per l’esattezza: l’Emilia Romagna dove si vota domenica 26 gennaio. E giù a consultare sondaggi, a fare e rifare il giro dei territori, per cercare di capire cosa succede tra l’Appennino e la Bassa modenese, in Riviera tra gli stabilimenti deserti d’inverno e nel ferrarese. Per dire che quando il premier Giuseppe Conte si è affrettato a dire che non c’è nessun significato nazionale nel voto emiliano, dopo aver fatto campagna elettorale in Umbria, si è sbagliato di grosso: non è solo un voto locale, ma di livello internazionale. Una sconfitta del Pd farebbe il giro del mondo, peggio della vittoria di Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999, quando in piazza Maggiore arrivarono le tv giapponesi. Allora era un candidato civico, la bolognesità fatta persona, che aveva sconfitto un partito già diviso ma ancora resistente. Oggi in tutta Europa sono consapevoli che se viene giù l’Emilia Romagna per il Pd e la sinistra, cade anche il governo Conte 2 e forse la legislatura. Una situazione di instabilità politica forse contagiosa, mentre nel Mediterraneo in Spagna c’è finalmente l’avvio del governo di Pedro Sánchez socialisti-Podemos, in Francia Emmanuel Macron deve fronteggiare la rivolta sulla riforma delle pensioni, in Libia le fazioni e le milizie compongono un rompicapo difficile da affrontare senza unità politica e mezzi militari, quello che Turchia e Russia mettono sul campo e che l’Europa non ha.
ER. L’Emilia Romagna è l’Emergency Room dell’Italia che non vuole rassegnarsi a diventare salvinista, e neppure meloniana, il pronto soccorso in cui provare a tamponare quell’emorragia di voti che ha portato la Lega a conquistare negli ultimi venti mesi otto regioni su otto dove si è votato (Molise, Friuli Venezia Giulia, Trentino, Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte, Umbria), tutte in mano al centro-sinistra, più il primato alle elezioni europee del maggio 2019. Poi, se l’operazione di emergenza dovesse riuscire, bisognerà pensare a una terapia adeguata per rimettere in piedi il paziente. Che continua a essere anemico di progetti e fragile di leadership, nonostante il governo nazionale caduto quasi per caso in mano al Pd dopo la crisi dell’estate di un anno fa e le leve di potere in alcuni ministeri importanti.

Alla vigilia delle ultime tappe il Pd ha riunito i suoi ministri in un’abbazia e ne è uscito con un programma di cinque punti: Rivoluzione verde, Italia semplice, equity act, scuola e salute. Qualcosa di più di un semplice elenco della spesa, qualcosa in meno di quello che sarebbe necessario. Di fatto, il partito resta diviso tra due vocazioni, due prospettive, due terapie diverse. Quella di restare al governo a prescindere, incarnata dal vero uomo forte, il ministro della Cultura Dario Franceschini, è stato lui a definire «un’idiozia» il sospetto che tra il governo Conte uno, con la Lega, e il Conte due, senza Lega, non ci sia traccia della mitica discontinuità. Coerente con la tela che Franceschini ha tessuto fin dall’inizio della legislatura: stringere un’alleanza con il Movimento 5 Stelle e trasformarla in una strategia capace di durare l’intera legislatura e oltre.
Per centrare l’obiettivo il ministro è disposto a resistere anche alle sirene interessate che lo tentano. «Dopo il voto in ER, se tutto va bene, la legislatura andrà avanti e sarà possibile rovesciare Conte da Palazzo Chigi mettendo te al suo posto», è il messaggio che gli hanno recapitato i messi renziani nelle settimane scorse, facendo anche sapere che su questo punto sarebbero d’accordo Renzi e, novità, Luigi Di Maio, ormai ostile al premier-avvocato. Franceschini non dà retta, perché conosce bene le regole del gioco e dall’antico professionismo della politica ha tratto l’idea che il progetto viene prima della collocazione personale, e anche perché in vista del voto sul Quirinale nel 2022 conviene puntellare quel che esiste.
Ma la conseguenza è che nell’attesa non bisogna muoversi, meglio non fare nulla o quasi. L’identità del Pd si esaurisce così in un solo punto: la sua permanenza al governo, a ogni costo. L’altro medico che si aggira in reparto, al capezzale del Pd, è l’attuale segretario Zingaretti. Lui prevede una terapia d’urto: cambiare il partito, se non scioglierlo. Pensa a un congresso per il dopo voto, comunque vada. Se dovesse andare bene, il leader potrebbe farlo da posizioni di forza, provando a guidare l’operazione. Se dovesse andare male, invece, potrà dire di essere stato il primo a reclamare il cambiamento. Serve un partito nuovo, non un nuovo partito, spiega Zingaretti, a dirla così sembra quel vecchio spot dei pennelli (non un pennello grande, ma un grande pennello), la ricetta non è inedita, è già stata sperimentata in passato e non è andata bene. Un partito nuovo, per esempio, dovrebbe mettersi in gioco e non semplicemente aggiungere i posti a tavola o in segreteria. Dovrebbe valorizzare le risorse che ha già all’interno e non cercare new entry puramente di facciata. Dovrebbe ripensare cultura politica, modello organizzativo, comunicazione, presenza nella società, in un mondo interamente mutato, dove la chiamata alla politica che motivava le migliori energie giovanili a mettersi alla prova si è spenta. Oggi a fare politica in modo nuovo ci sono gli Expat, di cui parlano Tommaso Cariati e Gaia van der Esch, oppure le Sardine. L’altro lato della luna, per gli italiani che non vogliono risvegliarsi interamente salvinizzati la mattina del 27 gennaio.
Il movimento delle Sardine non si candida alle elezioni regionali, non si conta in voti ma si pesa in influenza e dunque ha già vinto. Prima della sua comparsa in scena, lo scenario era spettrale e l’umore di un bel pezzo dell’elettorato di centro-sinistra tra il depresso e il disarmato. Da due mesi, invece, il motore si è rimesso a girare. Questa settimana sull'Espresso torniamo a indagare sui nuovi protagonisti della politica italiana che si preparano all’ultima settimana di campagna elettorale, dopo la manifestazione-concerto di domenica a Bologna: in cui tanti hanno sventolatola copertina-poster che Makkox ha disegnato per l'Espresso. Un’Italia circondata dal muro, impaurita e tremante, prigioniera di una bolla serrata da un filo spinato che la separa dal mare. Se riuscisse a scappare si trasformerebbe in una sardina, libera nel blu. I pesci la invitano a rompere la bolla e a nuotare in mare aperto. La trasformazione dell’Italia che ha paura e rabbia, vista in questi anni, in una sardina libera e felice è l’intuizione poetica e geniale di Makkox, ma è anche un progetto politico per ora soltanto in embrione. Che parla dei limiti visti in questi anni. E che prova a rispondere a qualche questione.
[[ge:rep-locali:espresso:285339620]]
Primo: non è vero che la destra non fa politica. Ne ha fatta tantissima, in questi anni. Ha parlato del “cosa”, la sicurezza, la povertà, il sentimento di frustrazione che nasce dal sentirsi soli e emarginati, mentre la sinistra parlava del “come”, le primarie aperte o chiuse, i nuovi contenitori, le riforme elettorali o costituzionali, roba da gente soddisfatta e realizzata. Le Sardine parleranno anche del “cosa”, dopo aver condotto una campagna elettorale sul linguaggio e sulla comunicazione da strappare agli imprenditori dell’odio? C’è da augurarselo.
Secondo: la destra vince esasperando il dibattito pubblico, creando uno stato di eccezione, mentre l’obiettivo di una forza nuova deve essere tornare a parlare con la normale quotidianità delle persone in carne e ossa. Ci sono tanti amministratori locali perbene e capaci del Pd che lo fanno notte e giorno, mentre i dirigentini a Roma spostano i soldatini del piccolo potere che resta loro, sono cresciuti in questo modo, si divertono così. Le Sardine hanno rappresentato una risposta straordinaria a un problema cruciale, l’incapacità dei capi dei partiti della sinistra di parlare il linguaggio della gente comune. Sapranno incrociare la normalità delle persone, che non possono mobilitarsi in ogni fine settimana ma vorrebbero luoghi di partecipazione, come si diceva un tempo, feriali, ovvero conciliabili con i tempi di vita e di lavoro?
Terzo: il merito delle Sardine è di aver riportato in scena parole come responsabilità e fatica, strappando la retorica che punta sempre alla gente buona contro il Palazzo corrotto, al popolo contro la Casta, parole d’ordine su cui hanno prosperato negli ultimi anni i vari leader dell’anti-politica. Una volta fatto questo passo non dovrebbe essere difficile compiere i salti successivi.
Considerare che la politica è conflitto, non soltanto un volersi bene. Ammettere che la politica è un mestiere, da fare bene anche se non per tutta la vita come un tempo. E dunque ribellarsi all’idea di essere usati, respingere i complimenti di certi antichi marpioni del partitismo di sinistra, le eminenze grigie che pontificano sui giornali dopo aver diretto qualunque cosa (e aver fallito ancora di più), o anche dal presidente del Consiglio in cerca di un partito suo. Evitare di essere strumentalizzati come uno spruzzo di novità, per evitare un vero rinnovamento.
La piazza e il conclave. L’opposizione e il governo. La straordinarietà e la normalità. Il vecchio e il nuovo. Nella ER, l’Emilia Romagna che è la nostra Emergency Room, si sfiorano tutte queste dimensioni: il trasformismo e l’entusiasmo, la paura di perdere e la voglia di vincere, la bolla da spezzare e l’orizzonte e il profumo del mare. In una navigazione che non si ferma il 26 gennaio, comunque vada, anzi, è appena iniziata.
Non so se le Sardine piacessero a Giampaolo Pansa. Conoscendolo, so che le avrebbe giudicate con la stessa severità che ha riservato a tanti di noi. «Non voleva essere un maestro, ma lo è diventato e ogni tanto bacchettava i suoi figli», ha ricordato Adele Grisendi, che è stata la sua compagna dal 1989 fino all’ultimo giorno. Giampaolo aveva ricevuto in dono la parola, ha detto il prete nella piccola chiesa di San Casciano dei Bagni dove martedì 14 gennaio gli abbiamo dato l’ultimo saluto. Il dono della parola e il dono del racconto, raramente capita che il giornalismo sia definito così, ma per Pansa si può fare. I lettori possono ritrovarlo sulle pagine dell’Espresso con una piccola antologia del suo Bestiario e gustare così i ritratti, le profezie, le cattiverie, le indulgenze di un uomo buono. E di un giornalista libero, controverso e discusso, che non voleva essere cortigiano di nessuno e neppure amichetto di qualcuno, soprattutto dei più vicini, come scrisse nel 2007 di Claudio Rinaldi, che Pansa aveva affiancato da condirettore per anni alla guida dell’Espresso.
Il nostro dna, dunque. Il nostro Giampaolo che ci mancherà sempre, che mi manca già.