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Ed eccolo qui, invece, senza fare una piega, perfettamente a suo agio in una platea composta da porporati, ambasciatori, uomini di Chiesa e del volontariato impegnato sui corridoi umanitari, lobbysti delle due sponde mediterranee. Nella sede prestigiosa di Civiltà Cattolica, a pochi metri da via Veneto a Roma, percorsa da turisti cinesi rinchiusi nella mascherina, l’avvocato Conte si è intrattenuto un pomeriggio a discutere di Europa e Mediterraneo con il cardinale Pietro Parolin, il segretario di Stato vaticano, e padre Antonio Spadaro, il direttore della rivista dei gesuiti.
Quando sono entrati, o meglio hanno fatto il loro ingresso nella sala, tutti i presenti si sono alzati in piedi con rispetto, come a scuola o a messa, durante l’inizio di un rito. Il cardinale Parolin si è portato una mano sul capo e ad alcuni presenti è sembrato volesse accennare a una benedizione. Invece, il dibattito è cominciato e il segretario di Stato ha preso a volare alto: la fratellanza e la cittadinanza, l’esigenza di avere paesi arabi che riconoscano pari diritti di cittadinanza ai cittadini di altre fedi religiose.
«La questione della cittadinanza pone sfide altrettanto complesse ai paesi del Mediterraneo del Nord», ha avvertito Parolin. «Bisogna evitare la ghettizzazione, incubatrice di nuove violenze. Il confessionalismo politico immagina nazioni con un unico credo religioso, riduce le fedi religiose in nazioni minoritarie dentro lo stesso Paese».
Il presidente del Consiglio ha annuito, ha applaudito, è intervenuto. Con citazioni appropriate, anche se un po’ scolastiche, di Giorgio La Pira e di Aldo Moro, ha assicurato che l’Italia «ha sempre agito in modo coeso per il salvataggio di vite umane» e che «soluzioni nazionali o nazionalistiche non hanno ragione d’essere». E più si inoltrava nell’esposizione, con un filo di banalità («da accademico confido nella condivisione del sapere...»), più appariva in quello che Conte vorrebbe essere, più che in quello che egli è oggi.
Qualcosa che va ben oltre l’immagine, tramandata da cronisti zelanti, del presidente del Consiglio neo-democristiano, e che supera anche la definizione che Conte dà di sé, del cattolico democratico, una cultura politica precisa che non può essere indossata o svestita come una pochette. Questo Conte aspira a essere la nuova Eminenza della Repubblica, se grigia o azzurrina si vedrà in seguito, mira a inserirsi in un ristretto pantheon istituzionale, la sua agenda governativa coincide del resto con la scadenza del mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, fornisce modesti contributi al monumento di se stesso preoccupandosi, nel contempo, che non avvenga niente che arrivi a smentirlo. Permette che ognuno possa ritrovare in lui qualcosa di se stesso, curiale con i prelati, descamisado con gli operai di Taranto, di sistema e di anti-sistema, lasciando poi in ciascuno il dubbio che di vero, autentico, fondato ci sia poco o nulla. Resta in equilibrio tra il Pd e il Movimento 5 Stelle, tra gli avvocati e i magistrati, tra la realtà e l’ambizione.
E forse è lui il presidente del Consiglio ideale di questa stagione. O forse no, semplicemente le stagioni politiche passano e i protagonisti si preparano a cambiare abito.
Non tengono più quelli che andavano bene per la seconda metà degli anni Dieci, effetto della lunga crisi delle società occidentali. Stanno per modificare format, in tutto l’Occidente, le destre sovraniste e le sinistre reduci dalla terza via, irriconoscibili prima di tutto a se stesse. Le notizie che arrivano da Oltre Atlantico, il caos delle primarie democratiche che nasconde un vero scontro politico e la disfatta - almeno per ora - della macchina del partito, tradizionalmente centrista e la metamorfosi di Donald Trump, da devastatore del sistema a candidato per una riconferma in nome del no al cambiamento.
Cambia vestito la destra, nel 2016 era temuta e avversata da quasi tutto l’establishment, oggi si cerca un compromesso, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Europa. L’Italia è il paese della destra elettoralmente più forte del continente europeo, ma anche politicamente più debole, perché priva di legami con i mondi produttivi, con le relazioni azzerate per le amicizie pericolose (è passato quasi un anno da quando L’Espresso svelò i colloqui di Mosca di Matteo Salvini e di Gianluca Savoini all’hotel Metropol), con un'ideologia forte e rudimentale, ma senza intellettuali in grado di trasformarla in cultura diffusa. Delle ambizioni culturali della Lega resta quel Marcello Foa, vacuo e smarrito presidente della Rai, soggetto ornamentale che fa la sua bella figura nella prima fila del teatro Ariston di Sanremo durante il festival, e nulla più.
La sinistra, il Pd e quanto sta intorno, prova a inserirsi nel dibattito più interessante del momento, in Occidente. Se la spinta populista degli anni Dieci è finita, perché il populismo sta cambiando pelle, come potrà la sinistra intercettare la novità che sta avanzando, la richiesta di una società alternativa alla solitudine, all’atomizzazione dei rapporti umani, gli individui senza mediazioni sociali che sono stati la vera benzina nel motore dei sovranismi di questi anni? È la richiesta che è arrivata anche dalle piazze delle Sardine, più ampia degli errori di ingenuità dei fondatori.
Tutto questo sarebbe un bel punto di discussione da mettere nell’agenda del congresso del Partito democratico richiesto da Nicola Zingaretti. Intanto, accontentiamoci del ritorno di questo straccio di bipolarismo. Che però rende ancora più azzardato il calcolo dell’avvocato-presidente Conte, restare fermi mentre tutto si muove. Così su ogni dossier: l’immigrazione, i rapporti con la Libia, i decreti sicurezza, la giustizia con la riforma della prescrizione, su cui stava per saltare anche il governo M5S-Lega, se non fosse prima intervenuta l’auto-distruzione estiva ordinata da Matteo Salvini. Il coronavirus che allarma le opinioni pubbliche occidentali e isola la Cina dal resto del mondo è anche un’emergenza che permette al governo di restare su un pezzo di realtà, senza dividersi perché nella necessità bisogna costruire un fronte unitario.
Nella migliore delle ipotesi, un governo così può essere al massimo un’occasione per l’ultimo partito che mantiene un’ossatura e una struttura (almeno di facciata), cioè il Partito democratico, per rimettersi in partita in modo competitivo. Ma per farlo bisogna uscire dall’ossessione che la politica sia restare al governo a ogni costo, denunciata con forza da un ragazzo del secolo scorso, Emanuele Macaluso, speculare all’impossibilità di governare che era la condanna del vecchio Pci, e forse anche la sua natura. Approfittare della parentesi Conte per tornare a una battaglia culturale nel Paese, impedendo che resti a farlo soltanto Rula Jebreal dal palco di Sanremo.
Anche per questo motivo, perché in 65 anni di storia non siamo mai stati estranei alle battaglie culturali e civili, anzi, le abbiamo spesso anticipate smascherando debolezze, ritardi, viltà, soprattutto nel campo progressista, L’Espresso parla nella storia di copertina di Bibbiano. Dopo il voto del 26 gennaio. Dopo le strumentalizzazioni politiche. Dopo la carovana delle telecamere, dopo il barnum di Salvini che ha provato a trasformare un doloroso caso giudiziario, comunque lo si voglia considerare, in un gigantesco Citofono per la sua campagna elettorale. Ora che i tabelloni elettorali stanno per essere smantellati e che le vie del paese reggiano sono tornate deserte, ora bisogna andare a Bibbiano, non dimenticare Bibbiano. Stare dunque dalla parte delle vittime di questa storia, i bambini strattonati da una parte e dall’altra, terreno di scontro politico, in quello strettissimo confine in cui è possibile incontrare l’orrore, il male più infame. Lo facciamo con lo strumento del giornalismo, che è parziale ma determinato, senza pretendere di compiere una contro-inchiesta, ma di portare alla luce quelle parti della storia che finora sono rimaste al buio, suscitando nuove domande più che risposte definitive, perché sul caso Bibbiano di guerre di religione e di verità assolute ne abbiamo già viste abbastanza. «Il giornalismo di inchiesta è l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione», lo ha scritto la Cassazione citata nella sentenza del tribunale di Velletri che il 24 gennaio ha ordinato l’archiviazione della denuncia presentata dai vertici della Lega (Salvini, Giancarlo Giorgetti, il tesoriere Giulio Centemero) contro L’Espresso per le inchieste degli anni passati.
Il racconto discreto di Giovanni Tizian e di Floriana Bulfon, rispettoso degli indagati e delle vittime, non è dunque solo un pezzo di cronaca, ma un nuovo capitolo sullo stato di salute della nostra democrazia, avvelenata dalle tifoserie, malata di propaganda. Il nostro contributo alla battaglia culturale di lungo periodo, non per scoprire come sono andate le cose a Bibbiano, compito che in ogni caso spetta alla magistratura, ma per uscire dalla logica della guerra per bande che ha intossicato tutti in questi anni e che non si è fermata davanti a nulla. Neppure di fronte all’innocenza dei bambini.