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Politica
febbraio, 2020

Quarantena Italia

MIlano in quarantena
MIlano in quarantena

Liti e Recessione. Il Coronavirus ha sorpreso governo e opposizione, Ma la politica si era isolata da sola, ben prima dell’epidemia

MIlano in quarantena
Nazione infetta: hanno provato a copiarlo in tanti, in questi giorni, il titolo dell’Espresso di sessantacinque anni fa, entrato nella storia del giornalismo. Si parlava, allora, di capitale corrotta, la questione morale che non si chiamava ancora così ma che già condizionava il dibattito politico. Oggi lo riprendiamo non perché pensiamo che l’Italia sia un paese in preda alla pandemia del Coronavirus: la malattia di cui soffriamo anticipa quella medico-sanitaria. Come ogni emergenza, anche quella di fine inverno 2020 fotografa la stagione che stiamo vivendo. Il ritorno delle categorie di base. Lo spazio (la distanza di due metri dall’interlocutore, la chiusura dei luoghi affollati o pubblici). Il tempo (l’incubazione, il decorso del virus). I corpi, che diventano veicoli della trasmissione della potente influenza, dunque armi potenziali, nemici. I corpi da isolare, contenere, recintare, nelle zone a rischio.

Tutto questo ci racconta che è arrivato il Cigno nero, l’evento non previsto che sconvolge le previsioni, di solito ottimistiche. Lo sappiamo, non c’è Bella Epoque spensierata e felice che non attraversi un affondamento del Titanic, a smentire la fiducia cieca nell’onnipotenza della scienza, o che non si concluda con uno sparo di Sarajevo. Non è Cassandra a dirlo, ce lo ha insegnato il Novecento breve, ce lo confermò l’alba del nuovo millennio, se ce lo fossimo dimenticato, con l’attacco delle Torri Gemelle che sfregiò l’ottimismo di inizio Duemila, con la moneta unica europea e l’ingresso della Cina nell’organizzazione mondiale del commercio.

Il Coronavirus non ha nulla a che fare con la Grande Guerra e con la fine degli Imperi centrali di oltre un secolo fa o con il terrorismo islamico dell’11 settembre 2001, ma per diffondersi nutre se stesso del panico globale e di altre ricorrenze. Primo sintomo: l’epidemia si sposta non per contagio dei dannati della terra ma grazie ai favoriti della globalizzazione, la diffusa classe media globale che viaggia da un continente all’altro, che vive a bordo di un aereo di linea e nelle sale d’attesa di un aeroporto, nella speranza, un giorno, di accedere a un gradino sotto Dio, alla ristretta cerchia dei super-manager per cui non tramonta mai il sole e la linea d’orizzonte è il panorama che si vede dal jet privato. Secondo sintomo: i dirigenti politici nazionali sono in genere impreparati a gestire l’emergenza, si ritrovano in uno stato di subalternità rispetto ai tecnici (i militari, i medici), finiscono per dividersi tra loro. Degli organismi sovranazionali, a partire dall’Europa, meglio tacere. Terzo sintomo: l’opinione pubblica reagisce non con rabbia ma con la sfiducia. Non si crede alle verità diffuse dal potere, ma con rassegnata diffidenza. Quarto sintomo: entra in sofferenza il sistema nervoso globale, le borse, i mercati, la finanza, l’aspettativa della crescita. C’è chi guadagna e chi vede bloccata la sua corsa, a sorpresa, e forse per sempre.
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Per l’Italia, c’è da aggiungere, i primi mesi del 2020 non erano affatto una bella epoca. Alla vigilia della scoperta del primo italiano malato di Coronavirus, il 38enne manager di Codogno, il paziente uno, il dibattito politico si stava avvitando sulla assai poco appassionante sfida tra Conte e Matteo Renzi: giustizia, crisi di governo, nomine nelle società partecipate. Nei ministeri si giocava al toto-rimpasto. All’opposizione Matteo Salvini versava in stato confusionale. Il Movimento 5 Stelle convocava assemblee per non decidere. E il Pd faceva dell’immobilismo un suo tratto esistenziale più che politico. Erano stati pubblicati i dati sull’aumento delle ore di cassa integrazione a gennaio, più quaranta per cento in Italia, più novanta nelle regioni del Sud. Il Pil dell’ultimo trimestre 2019 segnava -0,3. Un paese bloccato, in crisi di crescita, dove stava covando la tensione sociale, tenuta a bada dal consenso offerto all’azione dei sindacati maggiori, la Cgil di Maurizio Landini in testa.

Ora che il virus circola non si è vista almeno nei primi giorni rivolta, i gilet gialli non abitano in Italia, piuttosto una separazione silenziosa, l’approvvigionamento privato nei supermercati e nelle farmacie, il rifugiarsi in casa considerato come la via di fuga, il fai-da-te della protezione. Si salvano dalla sfiducia generale i sindaci che presidiano il territorio, senza poteri, lasciati alle prese con i rappresentanti dello Stato centrale, i prefetti, che hanno sbandato nelle disposizioni contraddittorie arrivate dal vertice del governo nei primi giorni, all’inizio l’allarme e la chiusura di tutto quanto fosse esposto al pubblico, funerali compresi, poi il contrordine, con il tentativo di frenare l’angoscia che ormai era diventata il sentimento nazionale. In sintonia con il presidente della regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, che la domenica ha paragonato la sua regione alla città cinese Wuhan da cui è tutto partito e due giorni dopo, vista la paralisi del sistema produttivo, ha provato a ridimensionare tutto: una banale influenza. E si salva il sistema sanitario nazionale, portato a esempio mondiale, giustamente, che il governo Conte con i ministri Gualtieri e Speranza ha rifinanziato per due miliardi di euro ma che è arrivato all’appuntamento con il virus giunto dalla Cina stremato da due decenni di tagli di posti di lavoro nel personale ospedaliero medico e infermieristico, di posti letto, di reparti, della ricerca, come racconta l’inchiesta di Gloria Riva.

Come ogni emergenza, anche questa rivela il volto di un Paese generoso e caotico. Il federalismo sempre annunciato e mai realizzato, un’autonomia regionale che è un’anarchia. Una Italia che si era messa già da tempo in quarantena volontaria. In ritiro dagli scacchieri internazionali, come il Mediterraneo, a un passo dalla recessione economica, governata da una maggioranza senza terminali nella società e tenuta in ostaggio sul lato dell’opposizione dalla peggiore destra europea, incapace di senso dello Stato nelle sue versioni partitiche e giornalistiche. La gara tra Conte e Salvini per occupare il ruolo di Capitani della Squadra Italia, il primo abbandonando la pochette per il maglioncino, il secondo riscoprendo le virtù del Senato con una conferenza stampa al giorno, tanto tutte le altre piazze sono chiuse, è l’immagine di una classe dirigente nel complesso inadeguata e spaventosamente mediocre. Divisa tra centro e periferia, più che tra destra e sinistra. Da questo punto di vista Salvini è un leader romano, almeno quanto Conte. Mentre i leghisti Luca Zaia e Fontana condividono con il Pd Stefano Bonaccini la dimestichezza con la rappresentanza e il governo di un territorio produttivo che si comporta come se non ammettesse interferenze nazionali.

L’emergenza sanitaria si chiuderà, speriamo presto e senza il carico di dolore e di sofferenza che provoca anche una singola morte, come ha ricordato (Repubblica, 26 febbraio) Vanessa Trevisan, figlia di Adriano, il primo a cadere vittima in Italia del nuovo male. Le altre emergenze restano senza risposta. Lo stato e la cura dei servizi pubblici: la sanità insieme alla scuola e all’ambiente è la vera messa in sicurezza di un paese, ma i sovranisti hanno imposto per anni che si discutesse di barconi, pistole, immigrati. Il Nord e il Sud, un divario che la diffusione del Coronavirus - pervasiva nelle zone ricche e esposte alla globalizzazione, più rallentata nei territori rimasti indietro nella competizione e quasi assente nelle province depresse - ha per paradosso confermato. La qualità della classe dirigente di maggioranza e di opposizione, vuota come le piazze, le fiere, gli stadi, le chiese. E le catacombe.

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