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Perché ogni tanto succede e forse ci siamo.
All’inizio della Quaresima, allora ben lungi dalla pandemia, l’arcivescovo di Milano Mario Delpini ha richiamato la seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (6,2). Per chi non crede, e tantomeno segue il calendario liturgico, esiste comunque il kairòs: nel greco antico era il momento di grazia, acuminato e rapidissimo, l’occasione, l’attimo fuggente da acchiappare al volo. Nulla vieta di pensarlo come un tempo oscuro e doloroso dentro il quale, sollevato il velo, si vedono nuove cose e si spalancano pensieri ancora più nuovi. Il cambiamento. La rinascita. La Resurrezione, appunto: maiuscola.
Per una volta vale la pena di non liquidarla come un’idea troppo piccola. Nelle raffigurazioni della grande pittura, Raffaello, Piero della Francesca, la scena del Cristo che risorge lascia coloro che assistono sbigottiti, alcuni addirittura svengono. Ma anche qui: al di là della dottrina, il fatto che qualcuno scenda agli Inferi per ritornare vestito di luce è qualcosa, un concetto, un racconto, che se ne va a zonzo per i millenni. Omero, per dire, ci spedì Ulisse, Virgilio Enea, Dante per conto suo. Certo, occorre qualcosa di grande e terribile per suscitare questo viaggio.
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Ecco. Mai come in questa crisi si è misurata la potenza di un evento naturale che non solo si sottraeva a ogni preavviso e a ogni calcolo, ma fin dall’inizio avrebbe invertito ogni rapporto di forze. Gli eventi, specie quelli natura, non sono semplici fatti. Non basta cioè che “accadano”; ciò che li rende tali - la differenza rispetto alle precedenti influenze - è che producono nella realtà delle trasformazioni prima nemmeno immaginabili. «Per questo - ha scritto il filosofo Rocco Ronchi su Doppiozero - un evento può essere pensato solo a partire dal futuro che genera». Di qui la percezione che quando tutto sarà finito - «Il dopo che verrà più tardi ma incomincia adesso», per dirla con Papa Francesco - verrà comunque un tempo migliore di quello che ha incubato la tragedia e l’ha vista sciaguratamente in opera.
Nelle tenebre della paura e dell’angoscia per sé e per gli altri; alle prese con goffi tentativi di districarsi fra puro e impuro («Come levarsi i guanti? Avrò toccato qualcosa?»); nel vuoto e nel silenzio delle città come dentro gli sguardi spaventati dei passanti; lungo le corsie degli ospedali che mettono in scena la crocifissione, a ciascuno la sua settimana santa.
Qui e ora: sopraffatti dal ricordo del prima, quando i maggiori siti aprivano con le vicissitudini di Morgan e Bugo; incagliati fra le magagne ambientali che hanno aperto la strada alla pandemia e l’incerta speranza della palingenesi; atterriti dai sacrifici umani, gli anziani, i deboli, i medici e gli infermieri sbattuti in prima fila senza mezzi, come i poveracci dell’Armir nel gelo della Russia con le scarpe di cartone. E il pensiero che corre, spending review dopo spending review, ai tagli alla Sanità, ai comuni, all’istruzione, alla ricerca, perfino al terzo settore. E i mille pasticci, le solite inettitudini, le prevedibili improvvisazioni, le inesorabili disorganizzazioni e arrembanti sovrapposizioni, gli annunci generici e contraddittori, le retromarce e i crash digitali.
Insomma Sua Maestà il Disastro, record di morti e di casini, ancora una volta tutto espressivamente nostro, all’italiana, come altro definirlo? E quindi accompagnato passo passo da sbuffi di melensa e implacabile retorica, oltretutto semplificata per esigenze social, gli eroi, “rialzare la testa”, luminarie tricolori, e l’orgoglio, sempre questo orgoglio, che un tempo non era nemmeno tanto una virtù, quanto spesso un peccato. Ma pazienza.
Anche questo capita da queste parti, ogni tanto. Sconfitte simboliche, esemplari patatrac. L’umiliante disdetta dell’imperialismo ad Adua, lo sfascio militare di Caporetto, poi la folle e furba avventura bellica del fascismo culminata nell’8 settembre; in tempi più recenti il caso Moro, i ritardi dopo il terremoto del 1980, le tristi pagine di Tantentopoli. E poi? Poi niente. O meglio, poi la morte, anche quando non è proprio la morte, ma un’esperienza di morte un pochetto sì.
Starsene nelle case sepolti, tombati. L’amuchina e la mascherina (forse tarocca, certo carissima) all’ingresso. Le note di “Murder most foul”, il bel lugubre brano che Bob Dylan ha dedicato all’assassinio di Kennedy. Sul comodino, piccolo tributo alla natura matrigna, il “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” di Giacomo Leopardi (1824), che in sconsolatissima continuità ti spiega l’euforia dei balconi e le astuzie dei finti runner, le rivalità fra i vanitosi virologi e gli strilli nei teatrini televisivi, fino all’Eterno riposo recitato in seconda serata dall’ineffabile duo Salvini-D’Urso.
Sulla scrivania, surgelati in attesa di catastrofico scongelamento, giacciono gli estremi coriandoli di una vita pubblica che procedeva secondo gli schemi della più accettata scemenza. Per cui ai primissimi contagi, “per scherzo” La Russa propose il ritorno al saluto romano, definito “antivirus e antimicrobi” (salvo poi addossare la colpa del post al suo collaboratore); mentre Beppe Grillo, l’Elevato, si era fatto fotografare con il volto coperto da una mascherina che enigmaticamente riproduceva il cervello umano.
Per il resto, a febbraio, dominava l’ordinario e vistoso cronicario. Le peripezie parlamentari di alcune anime in pena che le cronache definivano “Responsabili” e che in generoso slancio politicista, secondo l’onorevole Bettini, si sarebbero dovuti chiamare “I Coraggiosi”; il dibattito lunare su una certa legge elettorale già incautamente ribattezzata “Paurellum”; il casting dell’oltraggioso ex brigatista da talk-show; lo scherzo delle Iene al ministro Boccia; l’ultimissima puntata della telenovela Berlusconi-Pascale. Autosegnalato Renzi in elicottero a sciare sulle maestose nevi del Pakistan (vedi foto); intravisti i ministri cinque stelle alla manifestazione anti-casta con autoblù a debita distanza; avvistato un drone-spione nella chiostrina del palazzo di Di Maio il quale, fresco di lezioni d’inglese, inaugurava il dossier dell’emergenza sanitaria ribattezzando il virus “vairus”, all’ammerecana.
Insomma, robette così. Che sembra davvero arduo mettere a confronto con la Resurrezione; ma poi, cominciate a fioccare le cifre ansiogene dei contagiati e dei morti, ci ripensavi e ti prendeva un magone e poi l’onesta certezza che in fondo era come se ce la fossimo chiamata tutti noi, la tragedia. Non era possibile né giusto per una volta chiamarsi fuori. Tutto era troppo e insieme troppo poco, altro che teatrino: intorpidimento morale, tracollo della parola, eclissi del decoro, istituzioni svuotate e sclerotiche. Come si poteva più andare avanti in questo modo?
Valgono per tutti i versi di una poesia di Mariangela Gualtieri, titolo “nove marzo duemilaventi”: «Questo ti voglio dire/ ci dovevamo fermare./ Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti/ ch’era troppo furioso/ il nostro fare./ Stare dentro le cose./ Tutti fuori di noi./ Agitare ogni ora - farla fruttare./ Ci dovevamo fermare/ e non ci riuscivamo./ Andava fatto insieme./ Rallentare la corsa». Rallentare, e in qualche modo morire per rifiorire: «Noi torneremo con una comprensione dilatata./ Saremo qui, più attenti credo. Più delicata/ la nostra mano starà dentro il fare della vita». Nel frattempo si trema, si scherza e si prega per i governanti, che non facciano troppi guai (amen).
E non per buttarla sempre su questi ultimi, ma neanche a farlo apposta era da poco uscito un libro terribile, “Fake”, di Christian Salmon (Laterza). Con stile pacato lo studioso che qualche anno fa aveva tenuto a battesimo lo “storytelling” dimostrava che i nuovi capricciosi sovrani, tanto privi di potere quanto dannati alla sovraesposizione, erano divenuti ormai i custodi della menzogna. Sprovvisti di interiorità e ridotti al rango di scatoloni vuoti, prigionieri di selfie like e cuoricini, fino a ieri gli uomini destinati a gestire la più terrificante emergenza sanitaria procedevano verso il crinale del clash, non di rado affacciandosi sul baratro del non senso. Imprenditori di se stessi nel tempo della regressione democratica, si limitavano a ricaricare delle pile della loro vacillante reputazione a colpi di televendite per gonzi, performance provocatorie e indecente intimità.
È duro da dire e forse ancor più da ammettere, ma l’impressione è che tale esito dipendeva dal fatto che mai finora questa generazione di potenti si era trovata a fronteggiare la morte nella storia. Espulsa dai tweet, dai post e dalla dirette Facebook, le ha impedito anche la possibilità di risuscitare, rinascere, rigenerarsi, ricapitolarsi, rilanciare l’alleanza con la vita, insomma riprendere faticosamente il cammino lasciandosi alle spalle i sepolcri pieni. Perché senza affanno, senza strazio, senza lutto, senza catarsi, non c’è resurrezione, ma solo un vano affollarsi di maschere grottesche.
Sia consentita l’esperienza di chi ha passato gli ultimi anni a rovesciare su qualsiasi platea - libri, articoli, trasmissioni, università, convegni, seminari di sociologia e festival di umanità varia - le buffe e drammatiche aberrazioni da anni raccolte e classificate con sospetta acribia. In pratica: dopo essermi presentato come giornalista politico la cui annosa parabola professionale era passata da Aldo Moro a Lele Mora, approfittavo degli inevitabili sghignazzi per chiarire che si era superato anche quel limite; quindi in tono monocorde snocciolavo una lista di exempla: l’anno bellissimo, l’abolizione della povertà, la ruspa, la pacchia, la Nutella, il balcone, gli scontrini, i numerini, la manovrina, la manina, Lino Banfi all’Unesco, i Protocolli di Sion; proseguivo poi con il Casalino depilato a Palazzo Chigi e il Trottolino amoroso a Palazzo Madama, la foto di Fico in autobus e il selfie after sex di Salvini, lo stadio della Roma e il parco ambientale dell’Ilva; e ancora il mitra, i peluche, i brindisi, i bacioni, il Papeete, la moto d’acqua, il rosario a Barbara D’Urso, la supercazzola, la beneamata ceppa e altro ancora, ovviamente documentabile.
L’uditorio reagiva dapprima con preoccupato sconcerto, sciogliendosi quindi in allegra rassegnazione. Mi chiedevo allora quanto fosse sano tutto questo; mi chiedo oggi quanto, una volta spazzato via dal virus, se ne sentirebbe la mancanza. Ma non era finita perché sull’onda di Mark Caltagirone, muovendo cioè dagli intrecci fra l’odierna politica social e la cultura trash televisiva, il botto finale delle mie perorazioni consisteva nel delineare il paradigma di una vera e propria “scena oscena” insediatasi anche sul piano estetico nel cuore di questa Terza, ormai, Repubblica. Là dove l’etimo obscenus, derivante dal linguaggio degli antichi indovini, voleva anche dire, come da lacero e glorioso dizionario Rocci, “di cattivo auspicio”.
Ed eccomi qui a certificare, insieme ai rischi, agli abbagli, alle ossessioni e ai presagi del compilatore, che l’attesa pandemia accompagna l’ultimo tratto della rotolata giu per la china da De Gasperi a questi qua - e chissà come saranno i prossimi. Fine della parentesi soggettiva.
Cui segue l’avvertenza che l’epidemia, come la guerra, è sì un “maestro violento”, come ricorda con Tucidide il professor Gennaro Carillo; però non fino al punto da oscurare, nel fondo degli occhi ottenebrati dalle lacrime, i lampi di una possibile Resurrezione. A saperli riconoscere, se ne intravedono già piccoli segni, umili boccioli: idee, sentimenti, esperimenti, gesti, doni, progetti, concerti di campane come a Bologna, ma anche silenzi o imprecazioni trattenute.
Sono processi mentali al tempo stesso semplici e complicatissimi, rovesciamenti di senso insieme veloci e di lunga deriva. Il male comune ci fa vedere improvvisamente il suo contrario; la solitudine mostra di colpo quanto valore hanno le relazioni fra le persone; il sistema metrico del distanziamento sociale riaccredita la potenza dei contatti veri, degli abbracci, della catene umane contro le ingiustizie; i divieti necessitati e la soppressione dei diritti si ribalta facilmente nel desiderio di libertà. Nella tensione fra la morte e la vita, come avviene in natura tra l’inverno e la primavera, pare di afferrare uno snodo di possibile fecondità; e il misterioso paradosso della Resurrezione è che la vita, certo anche quella pubblica di una nazione, ci coglie morti per rimetterci a vivere.
In una serie di appunti alla base di un’opera titanica rimasta incompiuta (ma in seguito uscita con il titolo “La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, 1977) il più grande antropologo italiano, Ernesto De Martino, usa il termine “catastrofe vitale” per intendere qualcosa che scuote la civiltà provocandone la rigenerazione morale e spirituale. Allo stesso modo in uno dei suoi ultimi saggi, “Catabasi e anastasi” (ora in “Discesa all’Ade e Resurrezione”, Adelphi, 2002), un’altra immensa figura di intellettuale poliedrico che a prima vista s’immaginerebbe inconciliabile con De Martino, Elemire Zolla, porta a compimento quel concetto dimostrando che morte e rinascita sono esperienze che non solo si combinano nello stesso momento, ma l’una è causa e conseguenza dell’altra, traumi uguali e a contrasto, opposti che si compattano. E indica come prova «le parole incise sui sepolcreti: chi sprofonda nell’Ade nello stesso attimo si leva al terzo cielo».
I tre giorni di Cristo, viene da pensare, sono il tempo convenzionale di questo attimo di sospensione tra sventura e speranza, contagio e liberazione. Quanto basta per accostare il mistero, vederselo dispiegato nella storia, perché sarà ancora lunga e dura, ma nessuno può toglierci l’idea che si può e si deve risorgere. Perciò buona Pasqua - e visto che ci siamo anche buona Pasquetta.