Perché bisogna dire No al referendum sul taglio dei parlamentari
La crisi post covid richiede più politica e più democrazia. Invece l’Italia va verso una consultazione col trucco, che indebolisce la rappresentanza. Resta solo la possibilità di mobilitare una società civile che non si faccia prendere in giro
Straniante, stralunata, l'esperienza di un paesaggio conosciuto eppure all'improvviso deformato, qualcosa di familiare ma che non si mette più a fuoco, è in dissolvenza. Una lenta caduta, come nei sogni. Prendo a prestito questa immagine di Leonardo Sciascia per descrivere lo stato della istituzione centrale della nostra democrazia. Il Parlamento, nella nostra Costituzione, è il cuore del sistema democratico e infatti è stato l'oggetto di ogni tentativo di riforma degli ultimi trenta o quaranta anni. Ora ci risiamo: se non ci fosse stato il covid avremmo già votato per il referendum che è chiamato a confermare o meno la legge costituzionale di nove mesi fa che ha tagliato il numero dei parlamentari. Da 630 a 400 i deputati, da 315 a 200 i senatori.
La consultazione è stata spostata a causa dell'epidemia e fissata per il 20 settembre. Per caso, il giorno in cui cadono i 150 anni dalla breccia di Porta Pia, Roma capitale che concluse la fase risorgimentale, l'unità d'Italia. Nessuno sembra avere interesse fino a questo momento e se ne capisce il motivo. Un referendum che taglia i parlamentari, quasi senza motivo, senza accompagnare il provvedimento ad un'altra riforma, a un qualche cambiamento, è una festa della Divisione e della Disunità, il trionfo dell'Anti-politica. Con una campagna elettorale estiva, con l'attenzione spostata su problemi avvertiti dall'opinione pubblica come ben più gravi e urgenti, l'esito sembra scontato, per questo tipo di referendum non è previsto un quorum e il risultato è valido a prescindere dal numero dei votanti. I sostenitori del taglio, primi fra tutti i capi del Movimento 5 Stelle, sono sicuri della vittoria. E con ottime ragioni. [[ge:rep-locali:espresso:285345835]] Della riduzione dei parlamentari si parla da decenni. In tempo di crisi economica ogni sforbiciata ai costi della politica è benvenuta. E poi c'è la più che decennale polemica contro la Casta, oggi ripresa dalla nuova Casta costituita (anche) dagli ex grillini. Gli esponenti della nuova nomenclatura che occupa, lottizza, spartisce il potere, in Rai e negli enti pubblici, nei ministeri e nelle burocrazie, famelici quanto i predecessori.
Sembra il tempo giusto per le forbici brandite da Luigi Di Maio, il taglio dei parlamentari. Ma è un falso, questo è il tempo sbagliato. E per questo bisogna parlarne, fin da ora. Perché l'anno del covid ha consegnato all'Occidente e all'Italia due emergenze visibili, ferite pulsanti e sanguinose, ma anche un'emorragia nascosta e potenzialmente letale. La prima è l'emergenza sanitaria, i nostri quasi 35mila morti, un bilancio spaventoso in tempo di pace, cui si devono aggiungere i costi altissimi pagati dal servizio sanitario nazionale e l'onda d'urto sui pazienti delle altre patologie che nessun conteggio è riuscito finora a misurare. La seconda si chiama emergenza economica, in cui siamo completamente immersi: il blocco dei consumi, il commercio che non riparte, le imprese costrette a chiudere, i lavoratori in cassa integrazione e in mobilità, l'allarme sociale in vista di un autunno carico di incognite.
La terza emergenza è meno evidente ma altrettanto pericolosa. Riguarda lo stato delle nostre istituzioni e della nostra democrazia, l'aria che stiamo respirando. Asfittica e intasata dai veleni. Proviamo a elencare. Il potere legislativo è percorso da un senso di inutilità. Se il Parlamento avesse davvero smesso di lavorare in questi mesi, come si è voluto far credere, in pochi se ne sarebbero comunque accorti. Alla Camera e al Senato si muovono le anime morte, i fantasmi dei legislatori senza più il corpo che era assicurato dal consenso popolare: anni di liste bloccate, parlamentari scelti dai capipartito nella cerchia degli amici o dei compagni di classe o dalla piattaforma Rousseau hanno eliminato alla radice l'idea di rappresentanza. Resta in piedi il potere esecutivo, il governo presieduto dall'avvocato Giuseppe Conte: più che decidere appare, più che guidare è ossessionato dall'esigenza di dare l'impressione di farlo. Più che affrontare le questioni le contempla e soprattutto contempla se stesso nel ruolo di colui che ascolta e che decide.
Infine, l'ordine giudiziario è chiamato ad affrontare una delle crisi più gravi della storia repubblicana. L'inchiesta della procura di Perugia sul giudice Luca Palamara ha dato il colpo finale e ha delegittimato completamente agli occhi dei cittadini l'imparzialità e l'autorevolezza della magistratura e dell'organo di autogoverno, il Csm.
«Modestia etica», l'ha definita il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in contrasto con l'esempio luminoso dei servitori dello Stato caduti vittime del terrorismo rosso e nero e della criminalità mafiosa negli scorsi decenni. Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato, Gaetano Costa, Rosario Livatino. Ripetiamoli questi nomi, impariamoli a memoria. E paragoniamoli a quelli dei mediocri faccendieri con la toga, la P2 piccola piccola quella che ruotava attorno a Palamara e che condizionava gli incarichi nelle procure, la manutenzione di carriere insignificanti nelle mani di traffichini che amministrano la giustizia. Certo, Palamara non era da solo ad agire, era lo specchio di un sistema. Ma questo non fa che sottolineare la fine di un'illusione pericolosa, che i magistrati fossero un'élite scelta per moralizzare il Paese. Anche in questo: una lunga caduta.
Conclusione: la crisi post-covid richiede più politica e quindi, in forme del tutto nuove rispetto al Novecento, più Stato. In tutto l'Occidente le istituzioni sono messe alla prova: negli Stati Uniti che vanno al voto, nella Francia presidenziale e nell'Inghilterra post-Brexit, nella Germania della grande coalizione e nella Spagna della coalizione inedita socialisti-Podemos. In tutto l'Occidente, di fronte alle crisi globali, la risposta va nella direzione di un rafforzamento delle istituzioni.
Solo in Italia lo Stato è uscito smantellato, pezzo a pezzo. Nel 1970 la nascita delle Regioni rappresentò la speranza di un maggiore equilibrio tra i territori e lo Stato centrale, le riforme degli ultimi venti anni hanno distrutto l'equilibrio e aumentato il diritto di veto di ogni singolo presidente di giunta regionale, quelli che si fanno chiamare governatori, all'americana. Le riforme costituzionali che hanno toccato i poteri del Parlamento, respinte dai cittadini nel 2006 (la riforma Berlusconi) e nel 2016 (la riforma Renzi), sono servite a certificare un processo di svuotamento. In un clima culturale che lo storico Paolo Prodi descrisse così in uno dei suoi ultimi libri, “Il tramonto della rivoluzione” (Il Mulino, 2015): «Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un rovesciamento semantico per cui con rivoluzione si intende in realtà il suo contrario, la distruzione di ogni progetto, di ogni sviluppo coerente di visione del futuro. Nella nostra piccola Italia abbiamo addirittura un presidente del Consiglio che proclama di voler fare la rivoluzione utilizzando istituzioni che per loro natura sono preposte alla conservazione delle strutture, senza pensare che il loro abbattimento non porta alla costruzione di nuove realtà ma semplicemente al collasso dell'esistente».
Ogni riforma istituzionale, nel clima di emergenza democratica che è conseguenza dell'emergenza sanitaria e economica, dovrebbe darsi un unico obiettivo. Restituire più prestigio, più autorevolezza, più peso alle istituzioni dello Stato e alle donne e agli uomini che provvisoriamente le incarnano. Invece, succede il contrario. Il Parlamento già estenuato è alla vigilia di un referendum che mira a sgretolare un altro pezzo di quel poco di prestigio che ancora rimane alle Camere. C'è da dire che gli inquilini di Montecitorio e di Palazzo Madama hanno fatto di tutto per meritarsi questo risultato. Decenni di corruzione e impunità. Risorse divorate. Seguiti dall'avvento dei politici improvvisati, tanto incapaci quanto arroganti. Per questo appare assurdo, grottesco il referendum per cui i cittadini sono chiamati a tagliare il numero dei parlamentari. Perché in questo momento servirebbe l'opposto, un di più di politica, di rappresentanza, di Stato, anche quando i rappresentanti sono in gran parte clamorosamente inadeguati a ricoprire questo ruolo.
Una ragione in più per chiedere migliori meccanismi di selezione della classe dirigente. Quella che si forma in mezzo alla società, nelle cose della vita, come successe un anno fa al sindaco Emanuele Crestini. Fu l'ultimo ad abbandonare l'edificio del comune di Rocca di Papa, alle porte di Roma, invaso da una fuga di gas. L'ultimo a lasciare la nave, mettendo prima in salvo tutti gli altri, perché i capitani, gli uomini e le donne delle istituzioni fanno così. Per questo semplice atto di civismo Crestini ci ha rimesso la vita, c'era una piccola folla distanziata a ricordarlo il 23 giugno, in prima fila la figlia Maria Regina con una bambola.
Nel giardino di Mondo Migliore, l'edificio tutto marmi che negli anni Cinquanta del Novecento doveva costituire l'avamposto della riconquista cattolica della società voluto da papa Pio XII e che oggi invece ospita le famiglie dei migranti, compresi i profughi arrivati sulla nave Diciotti, i bambini di religione musulmana, quasi trecento persone di diversa nazionalità, ha detto il presidente della cooperativa Auxilium Angelo Chiorazzo che li accoglie. C'era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ecco un uomo delle istituzioni e della politica rimasto in ascolto della società civile, a esprimere l'idea di ricucitura tra Stato e società, tra le istituzioni e quella parte di cittadini che si sentono lasciati soli, ma che in questi anni sono stati imbrogliati, ingannati dalla prospettiva che bastasse rovesciare chi stava in alto per risolvere ogni problema.
Oggi in alto ci sono loro, gli stessi che invocavano le forbici contro la casta. Il Pd ha sempre ripetuto di puntare tutto sulla nobiltà della politica, ma in questo passaggio si sente obbligato a tenere in piedi una maggioranza di governo con M5S che non è mai diventata una vera alleanza politica. E così vengono traditi elettori, militanti, amministratori. I tre capi del centrodestra Salvini, Meloni e Berlusconi, sono incapaci di impopolarità, un punto perso nei sondaggi è una tragedia, in questo sono allineati con i 5 Stelle.
Resta la possibilità di mobilitare una società civile che non si fa prendere in giro. Serve un No al taglio dei parlamentari non per difendere l'indifendibile: il Parlamento va protetto anche dai suoi inquilini, attuali e passati, perché, altrimenti, di gioco in gioco, viene giù la democrazia. Un No per svelare il trucco dell'antipolitica che si è fatta occupazione del potere, con i suoi cortigiani e con la protezione dei suoi fogli di riferimento, ma che vuole tenere viva la radice originaria tagliando un pezzo delle assemblee rappresentative. Il rammendo è l'opposto delle forbici. Per questo serve il No. Per ricucire.