Tra i banchi del mercato, dove regna l'indifferenza e neanche l'antipolitica va più

Viaggio tra i delusi dell'ondata no-casta, a Roma e Torino, dove trionfò il M5S. Alla gente che fa la spesa adesso neanche del taglio dei parlamentari importa più: «Tanto si raddoppiano lo stipendio». Due su tre non sanno che si voterà, zero volantini, molte spallucce

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Periferia di Roma in bianco e nero, esterno giorno, sullo sfondo gli acquedotti romani. Anna Magnani fa la verduraia: «Fave fresche, fave fresche! Signori’, guardate che fava che c’ho io. I fichi ahò, che fichi», grida. Tanto grida che il banchista accanto a lei l’apostrofa: «A sora Roma, ammazza che voce che c’avete, stareste bene a canta’ la messa», le dice. La distanza abissale che c’è tra il mercato del Quadraro, in una delle scene più iconiche di Mamma Roma, anno 1962, e i mercati veri della Roma di oggi, quella del 2020 governata da Virginia Raggi, non è la pellicola, la mano di Pier Paolo Pasolini, e nemmeno la finzione scenica: è l’assenza di urla. Di voci. Di parola, cioè.

Cercare segni di passione politica nella vita reale è come andare per boscaglie in cerca del mare: e alla fine, invece che le onde, trovarsi in un campo di grano. Nel silenzio assordante delle cicale. Qualcosa di simile alla morte, alle percentuali del Cinque Stelle dopo gli anni d’oro, all’inerzia della sinistra. Alla presa che hanno le linee dei partiti sui discorsi della gente. Un silenzio da spavento. A Roma e Torino, nelle città dove non si vota per le Regionali ma solo per il referendum, e che nel 2016 segnarono il trionfo grillino di Raggi e di Appendino. Nessuno, al mercato, a urlare «guardate che carciofi che c’ho io, fermatevi qua». Nessun banchetto a far campagna per il sì e il no. Zero volantini. Non si parla con gli sconosciuti, tanto meno nell’epoca del Covid-19. Pochissimi si fermano. Nessuno si incuriosisce, anzi si scansa, fa il giro largo. È spesso: non so, non ho tempo. Le domande rimbalzano sulle mascherine, sulle incombenze, sulle preoccupazioni. Si direbbe che non ci sia qualcosa di più lontano, dalla vita, del referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari, tra gli odori di buccia di pecorino misto asfalto caldo, misto caffè macinato, misto grasso di prosciutto, misto zaffata di merluzzo, misto cartoni e cartoncini e fogli e penne bic che sembrano là da sessant’anni, ferme ai tempi di Mamma Roma, giusto.

A piombare sul mercato dell’Alberone, né centro né periferia, vicino al centro commerciale dell’Appia, inaugurato nel 2015 e tutt’ora una delle novità più sensazionali dell’urbanistica romana, ci si sente come un extraterrestre atterrato tra nel pieno del circo al Colosseo. Giusto nel mezzo tra le belve e i gladiatori: categorie, entrambe, che ti guardano con l’occhio sbarrato. Il referendum? Quale referendum? «Guardi che io so’ di Fondi, a Fondi non si vota», dice la signora del banco in fondo, sicura, mentre sistema le cassette di pesche sul banco: «Ne sono certa perché abbiamo votato l’anno scorso». Il primo schiaffo è toccare con mano come oltre la metà delle persone non sappia nemmeno che si vota, quando si vota, per che cosa. Sono tanti. Il pizzicagnolo sotto al cartello “mozzarelle di Amaseno” cerca di venire in soccorso: «Secondo me non si vota nel Lazio, mi pare, ma controlli, io non mi interesso proprio di politica».

Il mercato non urla, la politica non gli parla. Non parla alle giovani donne in fila per entrare al bar all’angolo, peruviane, leggere, con i passeggini e le figlie urlanti intorno, che con un sorriso replicano che non hanno la cittadinanza, non possono votare, rivolgersi altrove. Non parla alla coppia benestante che compra orate e non sa ancora se andare a votare. Non parla alle due signore anziane sedute invece al tavolino. Una con gli occhiali tartarugati e i denti consumati dice: «Inutile che prendi appunti: io ho qualche anno di più e ti dico che non serve perché a questi, di noi, non interessa niente. Rubano tutti». Niente interessa, niente serve. La classe politica viene presa in considerazione in blocco, nessuno viene citato per nome. Di una qualche dimensione ideale non si fa neanche cenno. L’ondata dell’antipolitica, qualche anno fa, era entrata a lambire anche questo universo, adesso che si è ritirata ha lasciato un deserto ancora più scrocchiante. Davanti al banco dello scottex e della candeggina, degli stracci e dei battipanni appoggiato a un mucchio di deodoranti spray, Marco, 36 anni, sembra l’esatto prodotto degli errori della sinistra, sommati agli errori dei Cinque Stelle. Insomma l’incubo perfetto di una intera classe dirigente, anzi due. Tanto preciso da sembrare finto, ma violento come una verità: «Diciamo che quello dei Cinque Stelle era un ber treno e se lo semo perso per strada», esordisce. «Io sono di sinistra, ci avevo creduto, ora devo dire mi sono un po’ perso. Perché poi questi da anticasta sono diventati alla fin fine che cosa? Casta, sono diventati. E ho sentito anche la Raggi l’altro giorno in televisione: non risponde alle domande, fanno come facevano quegli altri, quelli di prima. Ma non erano diversi? Dicevano due mandati e te ne vai: sembrava una bella cosa, ora c’è questa roba del mandato zero, parecchio fantasiosa. E pure il referendum: ma invece che dimezzare i parlamentari non facevamo prima a dimezzare lo stipendio? Per questo mi sa che voto no. Devo pensarci. E mica lo so se torno a votare: sarei di sinistra, e con questo ho detto tutto».
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Neanche una persona mostra un qualche attaccamento dichiarato a un partito, al massimo aree, destra o sinistra. Una sola persona, donna, pensionata, con un giornale in mano (Libero), in tutto il mercato, e una risposta precisa: «Voto no per far cadere il governo». L’idea poi franata di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno sembra aver prodotto più danni sui giovani che sui vecchi. Ad esempio Anita, che viene da Potenza e ha 28 anni, dice che è da tre anni che ha smesso di interessarsi alla politica: prima votava e anzi si informa sul referendum e su come può fare, visto che si è trasferita a Roma ma non ha con sé la tessera elettorale. Un bell’esempio, Anita, della capacità di penetrazione dei partiti tra i giovani: nessuno che le abbia parlato, finora, mai. Mario, impiegato statale in pensione, accompagnando la moglie a comprare pomodori dice che ormai la sua stella polare è una sola: fare il contrario di quello che fanno i Cinque Stelle. «E siccome alla fin fine è un referendum indetto da loro, io non ci vado proprio, a votare. Già ero diffidente, mi hanno allontanato ancora di più. Mi hanno proprio schifato». Vito ha 49 anni, un banco di vestiti, è ugualmente schifato, ma da destra: dice non se ne salva uno, andrebbe azzerato tutto, ancor più dopo il lockdown, «perché noi abbiamo rasentato la fame e loro non si sono occupati di niente. Io ho moglie e figli, per fare la spesa ho dovuto chiedere aiuto ai miei genitori. Ma nessuno paga per i danni che fa. E i grillini sono peggio di tutti: qua l’abbiamo visto con la Raggi. Prima, con gli altri sindaci, avevi un confronto: a questi invece non gliene frega proprio niente di noi poveracci». Con la diffidenza dilagano le congetture, il Parlamento sembra a un certo punto una casa di bambole in cui provare varie soluzioni (metà degli eletti, niente stipendio, uno per parte, due, cento, nessuno,eccetera) mentre la parola “rappresentanza” viene utilizzata da due persone soltanto: entrambe decise a votare no. «Ma non è un punto di vista partitico, i partiti non mi son mai piaciuti», dice una delle due - non fosse chiaro il ruolo dei partiti. Circondato ai quattro lati dal suo banco di frutta e verdura, mentre pesa la cicoria, Paride, 65 anni e una maglietta verde Adidas, fa eccezione: «Io voto no, ma tanto è uguale. Sapete perché? Mica se le tagliano subito queste poltrone, ma solo al prossimo giro: insomma date retta, è una fregatura».

I banchi dell’Alberone sono distanti da quelli di Montecitorio e quelli di Montecitorio non somigliano più agli scranni occupati dai deputati che lasciavano le loro città, eletti, per portare la voce dei territori nella Capitale, non sono fatti dello stesso materiale di chi ha difeso con la vita le istituzioni. Quei banchi, ormai vuoti anche per l’emergenza Covid, sono forse il ritratto di un Paese che non crede più che la politica sia lo strumento per cambiare le cose. E chissà che, a forza di tagli, tra qualche anno Montecitorio non diventi un museo: come Palazzo Carignano a Torino, sede del primo Parlamento d’Italia, dove fu concesso lo Statuto Albertino e dove Vittorio Emanuele II dichiarò la nascita del Regno d’Italia.

Provoca un senso di straniamento la vista di questo algido palazzo barocco, carico di storia, svuotato della sua funzione in mezzo, al salotto d’Italia; lo stesso sentimento che, qualche chilometro più in là, si avverte al mercato di Porta Palazzo. Qua le esistenze sono anche feroci, meno bonarie di quelle romane, meno pacificate. Qui i volti sono neri, creoli, le parlate si fondono, i dialetti si distruggono e quando si pone una domanda c’è voglia di parlare. Ma non del referendum, piuttosto della città: «Torino aveva creduto alla Appendino - dice Gerardo, ex operaio, col siciliano che tempesta ancora la sua parlata - ci avevo creduto anche io e quindi, dopo aver creduto a lei che ha peggiorato la città, come posso credere a qualcun altro. Al referendum non vado e sai perché? Perché tanto se tagliano i deputati creeranno qualche altro ente». Nella sfiducia generale, enti si mozzano ed enti ricrescono: come se la politica fosse un’idra dalle molte teste. Mentre parliamo subentra con mascherina di ordinanza e giornale sotto braccio Vincenzo, pensionato anche lui. Rincara la dose: «Lo sa che appena tagliano i Parlamentari entrano un numero simile di impiegati alla Camera? E cosa cambia? Per questo voto “No”».

Qualche metro più in là, una delle poche ragazze presenti tra i banchi del mercato si schermisce, si chiama Giada, ha 17 anni, occhiali tondi, occhi attenti e sguardo vivo sul mondo: «Purtroppo non posso votare perché sono minorenne, ma voterei “no” perché non sono per ridurre la rappresentanza ma per migliorarla. Sto cercando di convincere i miei amici ad andare a votare, gli dico che c’è di mezzo pure il nostro futuro ma niente, è come se parlassi un’altra lingua, è come se non interessasse nulla di questi argomenti». La disaffezione alla politica è trasversale e, tra un frutto tropicale e dei boxer tigrati assai discutibili in vendita a due euro, Hassan, siriano, chiede di registrare la sua “incazzatura”: «Sono incazzato con gli italiani. Da me c’è Assad, non si può votare, c’è la guerra, c’è la fame, c’è la dittatura, non possiamo fare niente, dobbiamo scappare e qui un sacco di gente non si interessa della politica. Io se potessi voterei pure per loro, non capiscono che così è sbagliato, perché meno voti e più il potere sta in mano a pochi». Nonostante il fervore però Hassan, come Maria, come Rosa o come Lorenzo non sa che si voterà per un referendum: «Nessuno ci ha detto niente, ma poi con questo Covid le pare che abbiamo la testa per andare a votare? Penso proprio di no», afferma con sicumera la signora Carla, che poggia una mano al carrello e l’altra sulla mascherina a rinforzare la protezione, ma a rendere difficile l’ascolto. «Se fosse possibile rimetterei la monarchia - dichiara Romano - però con Mattarella come sovrano unico, perché alla fine solo la sua saggezza è quella che risolve un sacco di cose: se non siamo morti tutti lo dobbiamo a lui».

Passo dopo passo, tra le zucchine, le cipolle, il platano, il distanziamento sociale difficile da rispettare perché il mercato è l’antitesi della diffidenza, si avverte forte il senso di impotenza che tutta questa gente sente. Non sono esclusi per loro volere, sono esclusi per necessità di sopravvivenza: come Nadia, che chiede in cosa consista questo taglio dei parlamentari e se possa migliorare la sua vita. A votare è stata due volte: la prima per Rifondazione Comunista, la seconda alle europee per Fratelli d’Italia. Se uno le dice che ha toccato due estremi opposti, lei muove le unghie lunghe e smaltate, quasi a disegnare in aria un complesso grafico statistico e risponde che lei è disperata perché lavora anche per ripagare i debiti del padre, debiti contratti dopo un fallimento aziendale e che al momento nessuno, tranne la parrocchia, le ha mai dato una mano. Poi domanda: «La politica non dovrebbe migliorare la vita delle persone?». Dovrebbe. Il condizionale non è solo d’obbligo ma è anche di modestia. Mentre si avvicina l’orario del pranzo e i banchi si svuotano, arriva un piccolo esercito di raccoglitori di frutta ammaccata, di avanzi delle cassette, di rovistatori di cassonetti. Sono i poveri, i più poveri tra i poveri, che iniziano a mangiare sul posto gli scarti raccolti. Di colpo ogni tentativo di giustificare, mediare e inoculare spiegazioni si arresta. Il silenzio, ancora.

Restituisce le parole Alberto, banchista da generazioni, che spiega come il suo “no” sia un atto di amore per la politica: «A casa mia erano tutti socialisti, nenniani, c’era anche uno zio liberale, per noi la politica è stata tutto: studio, conoscenza dei diritti. Per chi oggi siede in Parlamento questo non è importante, perché non siamo importanti noi. Ci chiamano popolo, ma siamo cittadini. Per questo voterò “no” perché se posso leggere, se ho studiato anche se faccio un lavoro usurante, lo devo alla politica: e io alla politica non sputo in faccia dicendo che ne voglio meno». Questo “meno”, tuttavia, dipende da che lato lo si guarda, in che concezione della politica lo si inserisce: la signora Marcella ad esempio voterà “sì” perché a lei «Di Maio piace e ha ragione. Chi non vorrebbe meno condomini nel suo condominio così alle assemblee si fa prima?». Difficile darle torto se Camera e Senato negli ultimi decenni sono divenute delle caricaturali raffigurazioni di una riunione condominiale fantozziana, dove il lessico si è imbarbarito, i selfie triplicati e il processo legislativo sminuito tra fiducie, veti, emendamenti e maxiemendamenti.

È raro che qualcuno ne parli e quando lo si fa a Porta Palazzo, nel cuore della Torino di forte anima legislativa, si ode da un fruttivendolo l’antica speranza della bomba che, esplodendo a Montecitorio, seppellisse tutto. Stragismo retorico ormai, secondo Primo che risponde alla bellicosa proposta con un più laconico «per quanta importanza hanno, per questi signori, la Camera e il Senato non gli faresti un danno, anzi daresti il pretesto per non riaprire più».

Mentre il vento di settembre porta via ciò che resta dell’ennesima giornata di mercato, l’Alberone e Porta Palazzo, divisi da 724 chilometri sembrano uniti dalla malinconia ineluttabile del finale di stagione, di uno spettacolo lungo, periglioso, appassionante chiamato dibattito pubblico. La politica, l’antipolitica, la post anti-politica che forse fa ricominciare il giro ma con un sempre maggior grado di sfiducia. La gente che torna a casa con i volantini delle ultime offerte dei supermercati, invece che con quelli del “si” o del “no”, sembra lontana parente di quella che lambiva con pensieri disordinati il potere, che discuteva di politica in famiglia, che nei mercati andava per fare volantinaggio. Appare svanito il ricordo di chi moriva per la politica, come Ivo Zini all’Alberone, ucciso dai Nar a 21 anni mentre leggeva “L’Unità” affissa nella bacheca della sezione del Pci, o delle tante lapidi dei partigiani che nelle vie limitrofe Porta Palazzo creano un percorso obbligato di storie giovani, finite non per caso. «Mio nonno mi raccontava le file per votare al referendum per scegliere tra monarchia e repubblica. Mi chiedo oggi quanta gente andrebbe a votare per un quesito del genere. Chi lo sa», dice Enza, che saluta dicendo: «Mi sa che non vado a votare, ho paura del Covid».

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