Editoriale

Elezioni, Nicola Zingaretti il Vincitore rende Giuseppe Conte il Sostituibile

di Marco Damilano   21 settembre 2020

  • linkedintwitterfacebook

I risultati delle Regionali rafforzano la posizione del segretario del Pd che può ripartire dai contenuti: cancellazione dei Decreti sicurezza e il Mes per la sanità. Senza però poter ignorare quel 30 per cento di No al Referendum, che segna la nascita di qualcosa di simile a un movimento che chiede un'altra politica

«Ora è sostituibile». Lo prevede una volpe astuta di Palazzo poco prima dell'ora di cena, quando i dati elettorali sono ormai consolidati e il Pd vola in Toscana, Michele Emiliano straccia Raffaele Fitto in Puglia e Vincenzo De Luca in Campania ottiene percentuali paragonabili a quelle di Luca Zaia in Veneto sul fronte opposto.

Il Sostituibile è l'inquilino di Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Fino alle 16.40 di oggi poteva temere l'assalto della destra di Matteo Salvini e si preparava a fare il capo della Resistenza. Bastano le prime proiezioni, però, a capovolgere la situazione.

Il voto più importante, le elezioni di mid-term italiane, le prime dell'era covid, hanno un vincitore indiscusso e sorprendente, il segretario del Pd Nicola Zingaretti. La sua prima vera vittoria: sconfitto nelle elezioni regionali del 2019, regista di un risultato di tenuta alle elezioni europee di un anno fa, perfino la vittoria in Emilia Romagna fu condivisa con Stefano Bonaccini e le Sardine. Anche in questo caso la lista è lunga: Emiliano con le sue quindici liste, De Luca con i trasformisti di ogni colore, Giani con la toscanità rossa attaccata e vincente. Ma è a Roma che il segretario ha la possibilità di respirare e di ricominciare laddove si bloccò nell'agosto scorso, al momento di dover formare un nuovo governo dopo il suicidio politico di Matteo Salvini.

Il retroscena l'ha raccontato lo stesso Zingaretti su “Repubblica” venti giorni fa, il primo settembre. Al momento di formare il governo, ha scritto il segretario del Pd, «solo sette dirigenti si dichiararono contrari alla nuova maggioranza. «Tutti gli altri erano uniti nella volontà di varare l'esecutivo Conte 2, considerandola la sola strada per salvare l'Italia. Nelle successive e doverose trattative porre problemi di contenuto o sulla qualità dei nomi fu perfino difficile rispetto alla suprema esigenza di chiudere, al più presto, il patto che sembrava possibile...».

Un anno fa è nato un governo per la «suprema esigenza» di bloccare Salvini. E Zingaretti fu costretto ad appoggiare una svolta che in cuor suo temeva.

Oggi l'onda lunga del Capitano si è insabbiata. La Lega arretra nelle regioni del Sud, si spezza il progetto della Lega nazionale. E al Nord c'è un leader di governo molto più forte e credibile, uno che non perde tempo sui social, Zaia che con la sua lista supera il 40 per cento, lasciando la vecchia Lega al 16. Mentre la maggioranza giallorossa improvvisata ha i pesi invertiti rispetto all'attuale Parlamento: M5S in molte regioni è un partitino, il Pd che si propone come alternativo al centrodestra risulta in molte regioni la lista più votata, anche se con percentuali certo non oceaniche.

Ora il capo del Pd, non più discutibile all'interno del partito (almeno per qualche tempo), ha un piano B.
Zingaretti non è tipo da Papeete, non farà l'errore di Salvini ebbro del successo inutile delle elezioni europee. Ma può ricominciare il lavoro da dove fu lasciato un anno fa. Le questioni di contenuto: il fondo Salva Stati Mes per la sanità, la cancellazione finalmente dei decreti Salvini sui migranti. E soprattutto l'occasione straordinaria del Recovery Plan: 209 miliardi per incidere sulla modernizzazione del Paese per i prossimi 10-20 anni.

Fino a stasera Conte poteva immaginare che sarebbe stato lui a decidere, più o meno in solitudine. Da oggi ha un Pd deciso a contare. La qualità dei nomi: alcuni ministri inadeguati da sostituire (leggi: rimpasto), alcune partite di potere (leggi: Rai), ma più in profondità una classe dirigente da promuovere. Nel governo e nel partito. Prima del lockdown Zingaretti chiedeva un nuovo partito e un congresso o un appuntamento destinato ad aprire le porte. Ora la sua Piazza si è fatta davvero Grande, o almeno più grande. E ha la forza di scegliere le persone migliori sui territori e costruire finalmente il suo partito a livello nazionale.

I suoi alleati-rivali interni sono indeboliti: Stefano Bonaccini è andato in Toscana da Giani e ha preferito commentare su facebook i risultati del referendum, Andrea Orlando si presenta con il Pd sotto il 20 per cento in Liguria. Degli alleati-rivali esterni, Matteo Renzi e Carlo Calenda, meglio non dire. Il minimo che possa accadere è che Italia Viva spinga per un rimpasto, per far proseguire la legislatura con un ministero più pesante di quelli attualmente occupati. Non una grande ambizione, in effetti.

Se tutto questo non dovesse accadere c'è il piano b. L'approvazione rapida di una legge elettorale e la possibilità di utilizzare l'ultima finestra elettorale possibile prima che scatti il semestre bianco di Sergio Mattarella. E la sostituzione dei gruppi parlamentari con i giovani leoni zingarettiani, tutti da inventare. «Vi ricordo che questo è il Parlamento eletto nel 2018, dopo la nostra peggiore sconfitta», ricorda ora Zingaretti.
Giuseppe Conte

È questo che rende “sostituibile” Conte, anche se non destinato alla sostituzione. Ma certamente viene meno il suo ruolo di mediazione e di trattino tra Pd e M5S. E il risultato che nel breve spazio di una serata rafforza la maggioranza di governo, in realtà apre già le scosse del domani immediato. «Se avessi la sensazione di immobilismo sarei il primo a chiedere le dimissione del governo e il voto», dice Zingaretti. Il banco di prova è subito: il Mes da inserire nel Piano per il Recovery Fund.

Nel centrodestra si apre il lento processo allo sconfitto di giornata che da oltre un anno non ne azzecca una. Salvini ne dovrà affrontare almeno due: quello giudiziario e quello politico. La strategia della spallata è fallita, eppure per il capo della Lega resta l'unica possibile. Chiedere le elezioni anticipate, buttarsi in una nuova campagna, continuare a correre perché fermarsi è morire. Ma gli alleati Giorgia Meloni (risultato agrodolce: bene nelle Marche, male in Puglia) e i forzisti non sembrano volerlo seguire. Serve tempo per trasformare un centrodestra ancora maggioritario in una coalizione politica con un gruppo dirigente più presentabile.

Il Movimento 5 Stelle ottiene la sua vittoria strategica, passa la riforma costituzionale del taglio dei parlamentari, e il suo rovescio politico: l'irrilevanza, la divisione, Di Maio che attacca la gestione Crimi, Di Battista scomunicato dai sacerdoti dell'ortodossia perché ha fatto la campagna per la candidata presidente in Puglia Antonella Laricchia, la Rousseau di Casaleggio che reclama le quote mensili. Nel gruppo parlamentare più numeroso di questa legislatura sta per aprirsi un cratere, un buco nero, un dilemma atroce. O dire di sì a tutto, per far proseguire la legislatura, o spingere il pulsante dell'autodistruzione.

Nella lista dei risultati c'è l'esito del voto referendario. Il No, partito dal tre per cento, in una campagna durata due mesi, mese di agosto compreso, ha convinto il 30 per cento e sette milioni e mezzo di elettori a votare contro la più demagogica e populista delle riforme. E ha reso così un servizio alla democrazia italiana. Si deve al composito, variegato schieramento che ha votato No, di società civile e di generosità politica, se è stato possibile prendere sul serio il quesito referendario e le questioni che la riforma costituzionale propone: il ruolo del Parlamento, la rappresentanza, la richiesta di maggiore democrazia. Di più: per merito del No, il fronte del Sì ha dovuto abbandonare le immagini più truculente, le forbici agitate da un ministro e capo politico contro i suoi colleghi, per provare a ragionare.

Una campagna non si valuta solo sul piano numerico, spetta ora a chi ha difeso le ragioni del Sì produrre una legge elettorale che non impedisca agli elettori di scegliere deputati e senatori che saranno di meno e dunque più controllabili, potenzialmente più fedeli ai loro capipartito. Zingaretti si è spinto a dire che il Sì del Pd contiene anche molte ragioni e preoccupazioni del No: per forza, dato che secondo alcuni sondaggi l'elettorato democratico si è spaccato e oltre la metà ha votato contro la modifica, in dissenso dalla linea ufficiale del partito.

Da qui nasce qualcosa di simile a un movimento di riforma della politica, che chiede un'altra politica, dopo tanti anni di anti-politica. E ora il partito che ha vinto oggi dovrà ascoltarlo, a partire dal primo punto: la legge elettorale. È lì che si giocherà la possibilità di avere un Parlamento che sia dei cittadini, nel senso di restituire il potere di scelta degli elettori semplici, e non di una nuova piattaforma Rousseau, magari con altro nome e da altre sponde. L'opposto di quanto serve oggi: la ricostruzione economica. Ma anche al ricostruzione politica, culturale, civile. Per farla servono i partiti, non i capi inseguiti per anni e fallimentari.