I primi venti anni del secolo hanno segnato il declino italiano, dice Nicola Zingaretti. Sì, ma la sinistra ha governato per più della metà senza le sue idee e i suoi leader. E oggi non si può più sbagliare
Il governo Conte è salvo (ma fino a quando?), la strategia del galleggiamento ha dato il risultato sperato: impantanare la voglia di spallata della destra leghista e meloniana. Il taglio dei parlamentari è stato vidimato dai cittadini con il referendum, anche se in modo meno massiccio del previsto. Il Pd è il primo partito nelle regioni in cui si è votato, anche se arretra al 19,8 per cento rispetto al modesto 22,1 per cento raccolto in quei territori nelle elezioni europee di un anno fa. Ma nelle stesse regioni la Lega di Matteo Salvini sprofonda, Forza Italia balla poco al di sopra della soglia del 5 per cento, il Movimento 5 Stelle si restringe.
Il trionfo dei presidenti in carica, super Zaia in Veneto, ma anche Giovanni Toti il Castoro Mannaro in Liguria e in Campania e Puglia Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, i Pigliatutto, dimostra che la voglia dell’uomo forte al comando non si è per nulla spenta. La paura del Covid spinge i cittadini a cercare protezione, velocità e certezza di decisione. I presidenti di regione che si fanno chiamare governatori, all’americana, si candidano a essere il club esclusivo che fa da contraltare al governo nazionale, cui i pallidi capi dei partiti di Roma devono cedere spazio.
Il referendum è passato facile, come era previsto, senza la mobilitazione del No delle ultime settimane il consenso sarebbe stato pari a quello raccolto nel 1993 dall’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, il 90 per cento dei Sì. Era questa la misura dei consensi che si aspettavano il Partito trasversale della Forbice e la strana coppia del BisConte, Marco Travaglio e Giuliano Ferrara. Il No ha invece raccolto il trenta per cento e sette milioni e mezzo di voti, in gran parte giovani e ad alta istruzione, il 40 per cento degli elettori del Pd ha votato in dissenso dal partito. È un elettorato in cerca di rappresentanza, che ama la politica, che ha votato contro la semplificazione. È il dato più interessante, su cui converrà discutere.
Passata la festa elettorale, lo scenario italiano resta lì, con le sue grandi rimozioni. Il lavoro che non c’è e che è sparito dall’agenda del piano Recovery Fund, come hanno denunciato Tito Boeri e Roberto Perotti (Repubblica, 19 settembre). La povertà educativa, che per l’Italia è la madre di tutte le disuguaglianze presenti e future, altro che i banchi a rotelle di cui si è ossessivamente discusso per tutta l’estate. Il cambiamento climatico e le sue conseguenze sull’Italia (da leggere il bellissimo “Terra promessa” di Stefano Liberti, pubblicato da Rizzoli, anticipato una settimana fa dall’Espresso). Il ruolo dello Stato che è ritornato centrale e il rapporto con l’imprenditoria privata, nella costruzione di un comune servizio pubblico che passa per il rispetto delle regole del gioco e della concorrenza. Le istituzioni repubblicane, ora modificate con il taglio del numero dei parlamentari: una ferita che va subito ricucita con una nuova legge elettorale e con poteri differenti per Camera e Senato, se non si vuole che diventi emorragia. E il territorio italiano che non si può più (soltanto) raccontare e racchiudere nella divisione storica Nord - Sud.
Il Covid ha rivelato altre divisioni, nuove fragilità. I ricercatori del Politecnico Alessandro Coppola, Arturo Lanzani e Federico Zanfi parlano sull'Espresso di un’Italia divisa in cinque zone critiche, cinque Italie fragili. Le periferie delle città metropolitane, le aree interne, i territori produttivi della terza, le aree delle ricostruzioni post-sisma nel centro, le zone delle coste minacciate dall’erosione, la pianura padana che è il motore del Pil italiano ma anche la zona più inquinata e più ferita dal covid, assediata da quella che i ricercatori definiscono «un’emergenza ambientale permanente».
Sovrapporre questa radiografia inedita dell’Italia alle mappe dei risultati elettorali significa certificare la distanza che c’è tra l’urgenza della realtà e la vanità dei progetti politici, compresi quelli dei vincitori di giornata del 20-21 settembre. Il piano del Recovery Fund saprà riconoscere le cinque Italie e la domanda di futuro? Senza questo riconoscimento svolta, rimpasto, discontinuità sono tormentoni post-elettorali, distrazioni di massa per prendere tempo. E la politica italiana si avvita nelle fiction prossime venture.
La prima fiction riguarda la tenuta della maggioranza che regge il governo Conte. Continuare a far finta che questo Parlamento rappresenti ancora il Paese e che il Movimento 5 Stelle sia ancora il motore della legislatura, come ha detto l’incolpevole perché inconsapevole Vito Crimi. In questo Parlamento M5S vale 199 deputati e 95 senatori, ma questi numeri sono fantasmi nell’elettorato. Il Pd è costretto a tenere su l’alleato in via di implosione, ma al tempo stesso la fiction deve finire. E il dilemma riguarda soprattutto Zingaretti.
Nella sua relazione all’ultima direzione del Pd, il 7 settembre, il segretario è partito con una lunga analisi su quelli che ha definito i venti anni del declino italiano: dal 2000 a oggi l’Italia è il paese che è cresciuto meno all’interno dell’Unione e dell’area euro con la Grecia e Zingaretti l’ha giustamente denunciato. Con altrettanta sincerità, però, avrebbe dovuto aggiungere che in questo primo ventennio di secolo il centro-sinistra è stato al governo o in maggioranza per più della metà degli anni. Giuliano Amato (2000-2001), Romano Prodi nel 2006-2008, nel 2011 il Pd entrò in maggioranza con Berlusconi per sostenere il tecnico Mario Monti, nel 2013 le larghe intese di Enrico Letta con i ministri berlusconiani, ora con i 5 Stelle e con Conte. In questo catalogo di espedienti c’è un solo punto in comune: mai davvero il Pd ha governato con i suoi leader e con i suoi progetti. Perfino la fase renziana, con i governi Renzi e Gentiloni, ha rappresentato una forzatura perché il sindaco di Firenze nel 2013-2014 riuscì a conquistare la guida del Pd e del governo non in seguito a una vittoria elettorale ma alla sconfitta di Pier Luigi Bersani (la non vittoria). Conclusione: il periodo del declino italiano coincide anche con il centrosinistra al governo e con la sua debolezza politica e culturale.
Ora è necessario uscire dall’improvvisazione e aprire una nuova fase nel partito e nel governo. C’è da dubitare che l’occasione sia sfruttata, ma non ci sono alternative. Perché c’è una seconda fiction che sta per finire, ancora più grande perché girata su scala europea. La Germania di Angela Merkel ha finora preso sul serio le intenzioni dell’Italia e del governo Conte sul piano Next Generation Eu, troppo importante tenerci dentro la costruzione della nuova Europa post-covid. Ma se dall’Italia dovessero arrivare progetti inaccettabili, l’apertura di credito sarebbe delusa. I due piani si tengono: uscire dalla fiction in cui si muove il governo, il M5S che detta legge, Conte «punto fortissimo di riferimento delle forze progressiste», come sostenne incautamente Zingaretti, significa evitare il rischio che Germania e Francia considerino chiusa la stagione della fiducia sulla capacità italiana di spendere bene i 209 miliardi in arrivo.
Gran parte del peso, ancora una volta, ricade su Zingaretti e sull’ossatura euro-italiana tutta targata Pd che è l’anima dell’operazione: Paolo Gentiloni, David Sassoli, Roberto Gualtieri, Enzo Amendola. Con il coinvolgimento e il recupero dei padri nobili e dei fratelli maggiori, lasciati per strada negli ultimi anni: Romano Prodi, Walter Veltroni, Enrico Letta. E le nuove leve sui territori. Da notare, oltre al trionfo del sindaco di Mantova Mattia Palazzi, il successo di Marco Panieri, classe 1990, trent’anni, uno che mentre Achille Occhetto scioglieva il Pci non era neppure nato, laurea in economia e master in gestione aziendale, segretario del partito a Imola, nella città che il Pd era riuscito a consegnare ai 5 Stelle nonostante il buon governo e il carisma del sindaco uscente Daniele Manca, eletto senatore. Panieri ha riconquistato Imola con il 57 per cento dei voti: è un volto di una nuova classe dirigente di amministratori sul territorio che mette insieme le radici nella realtà e l’ambizione di contare. Manca qualcosa? Sì, mancano le donne. Per il Pd e per la sinistra è un buco nero intollerabile.
Nel 1995 Rossana Rossanda scriveva sul Manifesto che «partire da sé per le donne era una infrazione, una rottura, mentre per l’uomo è un restare nell’ordine, una continuità, nell’esperienza, nei codici e fin dalla prima idea che gli danno di sé come sesso autonomo e superiore». E suggeriva a Livia Turco di insegnare al leader della sinistra di allora, Massimo D’Alema, «il non partire da sé, il negare la propria immediatezza, provar qualche vergogna della “virilità” tramandata, fare un passo indietro, ascoltare la voce femminile e lasciare che decida».
Ho scelto questo passo di Rossana Rossanda per la sua attualità, ma anche per ricordare la scrittura di una donna che è stata una militante politica e una maestra di stile, da ogni punto di vista. La vidi entrare in un teatro di periferia romana, al Quarticciolo, sul palco c’eravamo io e la collega Eva Giovannini a discutere di sovranismi alla vigilia delle elezioni europee del 2019. Era in sedia a rotelle, vestita di nero, piccola, fragile, eppure dava l’impressione opposta, di una forza luminosa, infrangibile. Era venuta fino a lì solo per ascoltare, lei che era anziana e malata, ci diede una lezione con la sua presenza silenziosa.
L’opposto dello sgomitare furioso, nella politica e nel giornalismo, di uomini e di donne. Parlò solo perché insistemmo, a fatica, ma subito sul punto. Forse è stato il suo ultimo intervento in pubblico, di fronte a pochissime persone cui stava facendo un regalo inestimabile: la sua parola, la sua voce. Era di intelligenza acuminata, di curiosità infinita per le persone e per la politica, le due grandi passioni. Non posso dimenticare una telefonata in cui voleva sapere come stava andando Podemos alle elezioni in Spagna e una visita nella sua casa romana. Ne nacque un articolo per L’Espresso, che pubblicammo sul numero del 12 maggio 2019, l’ultimo o il penultimo da lei scritto. Lo intitolammo “Manifesto per un nuovo femminismo”. «Sono sicuramente una donna. Posso aggiungere che sono una marxista-ortodossa, esserlo mi ha aiutato a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo», scrisse, quasi che sentisse il bisogno di presentarsi ai nuovi lettori, con umiltà e con fierezza. Così la ricordo anch’io, con il privilegio di averla conosciuta, e la saluto. Insieme a Peppino Caldarola, giornalista, gentiluomo, amico.