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Politica
gennaio, 2021

Il Paese sfidato dalle emergenze va avanti, nonostante tutto

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La pandemia. La crisi economica. l’Europa in allarme per la vaghezza del recovery plan. E il governo sempre più debole. Eppure la società è vitale e resiste

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Il Ventuno si apre con il Paese sfidato da tre emergenze. Parola ambigua infinitamente per la politica, perché l’emergenza abbatte, ma l’emergenza stabilizza. La prima emergenza 2021 è sempre quella sanitaria: il sorriso sotto la mascherina di Claudia Alivernini, l’infermiera dell’ospedale romano Spallanzani che si è vaccinata il 27 dicembre, è il simbolo di una speranza di ripartire nell’Italia delle 70mila vittime da covid, accanto alla complessiva dimostrazione di compostezza e di responsabilità offerta da una parte consistente della società italiana durante le feste natalizie. Fanno eccezione i negazionisti, gli sciacalli dei social che hanno augurato la morte alla giovane infermiera: le Brigate cretine. La seconda è l’emergenza economica: sono 300mila le aziende costrette a chiudere per la pandemia durante il 2020, secondo i dati di Confcommercio, bar e ristoranti, abbigliamento e tempo libero (una impresa su tre è sparita), cui vanno aggiunti 200mila lavoratori autonomi che hanno interrotto le loro attività.

C’è poi una terza emergenza, nascosta perché non si misura in percentuali e che è destinata a pesare in misura crescente nei prossimi mesi. È l’emergenza politica che in assenza di interventi rischia di trasformarsi in emergenza istituzionale. Il vuoto della classe dirigente che è stato messo in secondo piano dalle altre due emergenze e dallo stato di necessità provocato dal virus. E che ora riemerge in tutta la sua gravità.

Il 21 dicembre il premier Giuseppe Conte ha presentato al Consiglio dei ministri la bozza di Next Generation Italia, il Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza (Pnrr). Alla fine della lettura delle 133 pagine del documento riservato si resta con un senso di smarrimento. La riforma della giustizia, la riforma della pubblica amministrazione, l’economia della conoscenza, le infrastrutture, le periferie, dove abbiamo già letto tutto questo? La risposta è semplice: in ogni programma degli ultimi venti-trenta anni. Gli obiettivi di modernizzazione, digitalizzazione, innovazione, rivoluzione green del Paese sono affidati a strumenti antichi. Il Pnrr su cui, afferma il presidente del Consiglio, l’Italia si gioca i prossimi dieci anni, è già, in gran parte, superato da un decennio. Ma non è vero che sia un report senza anima, senza un principio di ispirazione. Nello stile, nel linguaggio, c’è una visione del mondo, se non addirittura una forma di ideologia. È il mondo, l’Europa, l’Italia, vista dalle burocrazie ministeriali che qui compongono il loro trionfo. Un tripudio romanocentrico dove la vitalità dei territori e della società italiana non viene neppure accennata. La parola Comuni, l’istituzione più vicina ai cittadini, ricorre tre volte, sempre come oggetto e mai come protagonista di politiche attive, la parola sindaco non c’è mai. Uguale vaghezza circonda il mondo delle imprese, delle università, degli istituti di ricerca e del terzo settore.

Nel capitolo parità di genere, che pure prevede 4,5 miliardi di interventi, si punta come primo obiettivo alla «promozione della parità e della conciliazione della vita-lavoro», come dicevano le gloriose Udi e Cif, le organizzazioni delle donne di sinistra e cattoliche, ma negli anni Cinquanta. Leggiamo: «Un sistema nazionale di certificazione sulla parità di genere; una strategia complessiva che includa i nidi d’infanzia e i servizi educativi e di cura per la prima infanzia; politiche per la diffusione della cultura delle pari opportunità; interventi e riforme per favorire l’occupazione femminile». In altre parole: la parità di genere - come sempre - è una questione che devono risolvere le donne. La sintesi di un’arretratezza, di progetti stilati da uomini di una certa età rinchiusi in una bolla di separazione dalla realtà quotidiana del Paese.

Il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni, intervistato dal Maurizio Molinari (Repubblica, 29 dicembre), ha lanciato un allarme inconsueto per un personaggio prudente come lui: «Va evitato il rischio di mancare un appuntamento storico, nella seconda metà del 2021 e nel 2022... Non possiamo definire “senza precedenti” il Recovery Fund e poi non prendere decisioni conseguenti sulle procedure ordinarie». Tutto questo sta a significare una sola cosa: il tempo delle mediazioni è finito. Sulla riuscita o meno del piano italiano si gioca tutta la strategia di Bruxelles e della leadership di Angela Merkel, a fine mandato, in un anno elettorale decisivo: a marzo si vota in Olanda, dove il premier Mark Rutte guida il fronte degli scettici su Next Generation Eu, a settembre tocca alla Germania.

Su tutto questo, e sugli effetti macroeconomici del piano, in verità modesti (0,5 di Pil nel 2022, 1,3 nel 2023, 1,7 nel 2024, 0,8 di occupazione nel 2022, 1,3 nel 2023), Matteo Renzi ha aperto il fuoco contro il premier e ha presentato il suo contropiano ribattezzato Ciao (Cultura Infrastrutture Ambiente Opportunità) che è anche un indirizzo politico: ciao Conte, anzi ciaone, bye bye. L’ex premier si muove nello spazio lasciato deserto dal doppio immobilismo del presidente del Consiglio in carica e del partner di maggioranza, il Pd. Il Movimento 5 Stelle è come l’Italia pre-unitaria, un’espressione geografica divisa in staterelli personali, non un soggetto politico. Ma l’ambizione di Renzi non è soltanto buttare giù il governo Conte due per sostituirlo con un Conte tre, o con un esponente del Pd (è scattata l’apposita offerta per Dario Franceschini che non ha intenzione), o con un governo di unità nazionale Mario Draghi style, e perfino un governo presieduto da Luigi Di Maio. Renzi vuole dimostrare che anche stando fuori dal Nazareno, anche guidando un partitino del due per cento, il vero capo del Pd è lui, è lui che dà le carte, la linea, è lui che detta i tempi e il ritmo di gioco, è lui che su Conte afferma quello che mezzo Pd pensa ma che non può dire. Lo vuole far sapere all’opinione pubblica interna e internazionale, con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. «E poi, non ho nulla da perdere», ripete ai suoi interlocutori.

Ma l’emergenza politica e istituzionale va oltre le manovre di Palazzo di inizio 2021, i venti di crisi, le avanzate e le ritirate. Dopo un anno di pandemia la società italiana si ritrova vitale, nonostante tutto, nella sua capacità di resistenza alle ondate del virus e delle chiusure, più che di resilienza. Ma anche meno rappresentata nelle sedi dove si decide, con meno canali di collegamento tra il corpo vivo dei territori, delle imprese, delle associazioni e le istituzioni centrali. Un’asfissia, una strozzatura che non può essere sostituita dalle parate mediatiche degli Stati generali o dal turbinio dei tavoli di maggioranza e di opposizione.

Il nuovo anno ci consegna partiti sempre più deboli e un Parlamento mutilato nei suoi componenti, dopo la decisione delle forze politiche confermata dall’elettorato con il referendum di tagliare 230 deputati e 115 senatori. Le conseguenze, almeno per ora, sono una minore rappresentanza dei territori e la mancanza di una nuova legge elettorale che era stata presentata dal Pd come la condizione minima per accettare il taglio dei parlamentari voluto dal Movimento 5 Stelle.

A tutto questo si aggiunge il più importante evento politico del 2021, che condizionerà le mosse di tutti i protagonisti: l’inizio, a metà anno, del semestre bianco, gli ultimi sei mesi del mandato di Sergio Mattarella, durante cui per la Costituzione non si possono sciogliere le Camere. Nella storia repubblicana è il momento più denso di incertezza, in qualche caso perfino di pericolo. E coinciderà con la possibile fine della fase più tragica della pandemia, con la vaccinazione di massa nella primavera-estate 2021, ma anche con il momento potenzialmente più devastante della crisi economica.

Trenta anni fa, con una legge costituzionale di una sola riga (la numero 1, 4 novembre 1991), fu modificato l’articolo 88 della Costituzione sui poteri presidenziali di scioglimento delle Camere, introducendo la possibilità di elezioni anticipate se gli ultimi sei mesi del mandato del presidente della Repubblica coincidono anche solo in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. Un cambio che ha consentito agli italiani di votare nel 1992 e poi nel 2006 e nel 2013 anche negli ultimi mesi del mandato di Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano.

Oggi lo strappo da evitare, in caso di voto anticipato, è lo sbilanciamento del numero dei Grandi elettori chiamati a votare per il presidente della Repubblica. I delegati delle regioni sono ora 58 e 945 i deputati e i senatori, diventerebbero 58 da affiancare ai 600 parlamentari in una futura legislatura. Le regioni dove, tra l’altro, il centrodestra è in stragrande maggioranza, ne amministra 15 su 20. Di questo si parla nei palazzi. Si discute di chi sostituirà Sergio Mattarella. Il presidente solo «en la tormenta», lo ha definito El Pais, che non ha lasciato solo il Paese.

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