Editoriale
Nonostante gli appelli di Mattarella alla ricostruzione, va in scena una crisi politica che è crisi di sistema. E in quindici mesi Pd e M5S non sono riusciti a unirsi su un progetto che non sia la pura permanenza al potere
di Marco Damilano
Sulle riaperture delle scuole si è consumata l’ultima faida sanguinosa all’interno del Consiglio dei ministri tra la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, favorevole al ritorno degli studenti tra i banchi, e i colleghi, schierati sul fronte opposto. Ma le regioni avevano già preso le loro decisioni, senza aspettare la scelta del governo. E i dirigenti scolastici a poche ore dalla data inizialmente prevista per la riapertura, giovedì 7 gennaio, si sono ritrovati senza indicazioni, dopo mesi di stop and go, banchi a rotelle, tracciati, messa in sicurezza degli edifici.
È dal 4 marzo, il giorno in cui il governo Conte decise di interrompere le lezioni in presenza, con qualche giorno di anticipo sul primo lockdown totale su tutto il territorio nazionale, che la scuola è il terreno di scontro ed è la cartina di tornasole di uno Stato sull’orlo del collasso. Uno Stato che resiste negli avamposti sanitari, grazie a un servizio nazionale che nonostante un decennio di tagli non è crollato, ma che affonda nel settore fondamentale dell’istruzione, così come quello dei trasporti, mentre le istituzioni centrali e regionali continuano a marciare ognuna per proprio conto, scaricando su dirigenti scolastici, docenti, famiglie e territori il conto della propria disunità.
È lo stesso spettacolo cui stiamo assistendo sulla somministrazione dei vaccini, con il rimpallo di responsabilità tra lo Stato centrale e le regioni, e perfino la scelta delle aree deposito dei rifiuti radioattivi: appena è stata pubblicata la mappa delle 67 aree individuate dalla Sogin, la società pubblica che si occupa della messa in sicurezza delle scorie nucleari, ecco intervenire per dire che la Basilicata, la sua regione, non è idonea, il ministro Roberto Speranza, colui che è stato definito dal suo sponsor politico Massimo D’Alema «il difensore della salute degli italiani», con un’espressione da brivido. Perché è sfortunato quel Paese che ha bisogno di avvocati del popolo e difensori della salute pubblica. Anche in tempi di pandemia.
Non è uno scenario solo italiano. La campagna vaccinazione è la grande chance del 2021 per sconfiggere il virus, ma intanto la pandemia fa vacillare anche le leadership più solide: in Germania Angela Merkel, in Francia Emmanuel Macron. In più, si sfalda il fronte della solidarietà europea, quando si apprende che la cancelliera di Berlino sta trattando con Vladimir Putin un piano russo-tedesco sui vaccini, autonomo dal resto dell’Europa.
È il disordine globale, che si muove dall’Europa agli Usa al Brasile, e l’Italia non fa eccezione. La differenza dell’Italia con gli altri paesi è che la pandemia ha funzionato per mesi da acceleratore di tutti i mali nazionali mai affrontati in decenni. E che nelle ultime settimane è diventata lo sfondo di una crisi politica dichiarata, di una crisi di governo strisciante, di una crisi istituzionale alle porte.
La crisi politica va avanti da mesi: è la lettera non scritta di una maggioranza mai nata. Dopo quindici mesi di governo insieme il Movimento 5 Stelle e il Pd non sono riusciti a diventare alleanza politica, si sono compattati su un’emergenza imprevista e spaventosa e sul mantenimento di posizioni di potere enormi e insperate, con la guida di un premier che ha fatto della sua identità indistinta e mutevole il suo punto di forza. Tutto questo, però, non è un progetto di futuro.
Quando è arrivata l’offensiva di Matteo Renzi Giuseppe Conte ha scoperto di non avere punti fermi, di essere privo di principi non negoziabili. Tutto si può negoziare, il Recovery Plan, la delega sui servizi, i posti di governo, con le ministre che ruotano nel toto-rimpasto avvicendate da uomini, mentre la destra promuove Letizia Moratti in regione Lombardia: anche questa è una mancanza di visione politica, una indifferenza a tutto quello che non sia la pura permanenza al potere. Perché a nulla in fondo si crede se si è governato sia con Matteo Salvini che con Nicola Fratoianni, tutto è stato messo sul tavolo della trattativa, tutto tranne la posizione di comando del premier. Che è il vero punto su cui ruota tutta la crisi strisciante di questi giorni.
«Non credo che possa passare per la mente di nessuno l’idea di mandare via da Palazzo Chigi l’uomo più popolare del Paese per fare un favore a quello più impopolare», ha detto D’Alema intervistato da Stefano Cappellini (Repubblica, 6 gennaio). Rocco Casalino o Marco Travaglio non avrebbero saputo fare di meglio: una mossa da manuale del candidato perfetto per il Quirinale.
D’Alema era un esperto di impopolarità. Era, in fondo, la sua più autentica virtù, su cui ha investito una carriera intera. Vedere che anche lui trasforma in politica i sondaggi di gradimento provoca un certo smarrimento, peccato. E la storia rischia di ripetersi. Nel 1998 un colpo di Palazzo bloccò il governo presieduto da Romano Prodi e provocò il cambio di inquilino a Palazzo Chigi, via il Professore che con Carlo Azeglio Ciampi aveva portato l’Italia nella zona euro, al suo posto il capo del partito principale azionista della maggioranza, D’Alema. Il governo dell’Ulivo cadde anche perché il suo premier rifiutò di abiurare al suo progetto politico rispetto all’offerta del gruppo dei Responsabili dell’epoca, capeggiati da Francesco Cossiga.
La differenza tra allora e oggi è che Prodi guidava la coalizione dell’Ulivo che aveva vinto le elezioni del 1996 (sia pure con la costruzione politica della desistenza di Rifondazione comunista, della lista di Lamberto Dini e della spaccatura della destra tra Lega e Forza Italia-An, con la regia di D’Alema). Mentre Conte non è legittimato da alcun voto popolare e la sua maggioranza non è diventata un soggetto politico. Oggi la nascita di un partito di Conte arriverebbe dopo anni di governo, non prima. Sarebbe generata dal Palazzo, non dalla società. E questo spiega perché sul nome del premier si sia scatenata una sfida così accesa.
Dal 1996, la vittoria elettorale dell’Ulivo di Prodi e del centrosinistra, sono passati venticinque anni: un quarto di secolo! Era l’idea di una trasformazione del sistema politico: coalizioni stabili con una nuova cultura politica, rapporto con la società, istituzioni forti. Il resto del tempo è stato sprecato a disfare questo progetto. A destra lo fece per primo Silvio Berlusconi: era entrato in politica come l’uomo del bipolarismo e del maggioritario e invece promosse il Porcellum, la cancellazione del potere di scelta dell’elettore, impossibiltato di decidere sui governi e sui rappresentanti, deputati e senatori. La sinistra ha seguito gioiosamente ed è rimasta senza base sociale.
Andrea Manzella ha dedicato un denso libretto al Parlamento (“Elogio dell’assemblea, tuttavia”, Mucchi editore) e distingue tra rappresentatività di un’assemblea, «il rispecchiamento in essa del pluralismo del gruppo sociale che le ha dato vita», nel caso del Parlamento la società italiana, e rappresentanza, «la capacità di azione dell’assemblea come interprete della volontà del gruppo sociale di riferimento». Senza l’una non c’è l’altra, scrive Manzella. E oggi non abbiamo né l’una né l’altra. Il Parlamento e il governo, i partiti di maggioranza e di opposizione, non rispecchiano la società e non agiscono, se non costretti dall’emergenza virus.
Renzi guida un partitino senza radici elettorali, dopo aver conquistato e dilapidato una montagna di consensi negli anni passati, ma anche Conte non si è mai contato con il voto. Sono due leadership che misurano una popolarità e una impopolarità soltanto virtuale e forse per questo mirano ad annichilirsi, sempre virtualmente. Sono due facce della stessa paralisi.
In un quarto di secolo il sistema non ha trovato un punto di approdo diverso da quello di soddisfare le ambizioni dei protagonisti. Nessuno se ne preoccupa, neppure ora, con il paese stremato dalla pandemia e dalla incertezza sul futuro. E ora ci ritroviamo con le scuole chiuse e una crisi politica aperta in cui di prevedibile c’è soltanto l’instabilità presente e futura. La corsa alla guida del governo e l’impossibilità di governare.