I legami scaturiti nel dibattito pubblico rischiano di essere effimeri. Lo dimostra il flop sovranista di queste ultime elezioni. Ma è una tendenza assai più radicata, come spiegano due studiosi nel loro ultimo lavoro (Illustrazione di Valentina Vinci)

Le reazioni di leader e candidati ai risultati del primo turno delle elezioni amministrative hanno messo in scena tante e diverse ”verità”, alcune più fondate, altre meno. Come è sempre accaduto, si potrebbe osservare. Sì e no. Perché in realtà il contesto contemporaneo offre spazi fino a tempi recenti inesplorati alla creazione di “verità alternative”, alla loro propagazione e alla creazione attorno ad esse di conflitti non conciliabili.


Il dibattito pubblico, infatti, nelle nostre democrazie sempre più si dipana attraverso fenomeni come il disordine informativo, l’inciviltà, la polarizzazione. Secondo i i sociologi dei processi culturali e della comunicazione Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri esso comunque sopravvive, certamente adattato e trasformato, nonostante quei vizi che tendono ad immergerlo in quella nebbia cognitiva che prende oggi il nome di post-verità. Il tema non è di poco conto. Come osservano i due studiosi nel volume che hanno appena pubblicato con il Mulino, “Voci della democrazia”, il dibattito pubblico “crea” l’opinione pubblica. Ma al tempo stesso ne è la forma espressiva: rende pubbliche posizioni e opinioni che poi entrano nei processi di formazione delle decisioni pubbliche e influenzano gli attori coinvolti. Dunque, il dibattito pubblico rappresenta il modo in cui l’opinione pubblica esercita la propria influenza sul modo di funzionare della democrazia.


Oggi esso prende forma in un ambiente mediatico sempre più complesso, frutto di ibridazione tra vecchi e nuovi media. Ma, soprattutto, ha assunto ormai un aspetto multiforme che a sua volta riflette una mutazione dell’opinione pubblica e la sua riformulazione in una molteplicità di pubblici, raggiunti attraverso la panoplia di piattaforme mediatiche e più o meno connessi o isolati.


Questa realtà magmatica investe innanzitutto i protagonisti “storici” della democrazia: i partiti. I quali, ci spiegano riflettendo insieme a noi Bentivegna e Boccia Artieri, sussistono, ma in forme nuove. Sono strettamente vincolati a quei segmenti di pubblico con i quali riescono a entrare in contatto. Come nel caso della Lega di Matteo Salvini, riflette Bentivegna. Le sue fortune elettorali appaiono l’espressione di una stretta sintonia con alcuni pubblici, legata alla capacità di fornire ad essi identità. Capacità poi scemata: «E ora non c’è più niente da fare. Salvini può anche andare a Santiago di Compostela a piedi che non ce la fa più a recuperare».

 

I legami e le identità che scaturiscono nel dibattito politico di oggi rischiano di essere effimeri. I risultati non soddisfacenti del centrodestra a trazione sovranista alle elezioni comunali, perlomeno in alcune grandi città, qualcosa ci dicono di questa aleatorietà.


Gli umori dei pubblici, attraverso i sondaggi o le analisi di quanto prodotto sui social, sono costantemente monitorati per cogliere, spiega Boccia Artieri, i temi in agenda (come nel caso della Bestia di Morisi). E più pubblici ai quali rivolgersi, prosegue, significa anche eterogeneità dei messaggi emessi dallo stesso partito, contemporaneamente, su media diversi e in occasioni diverse. Le differenze di stile e contenuto tra le interviste sulla grande stampa e le comunicazioni “disintermediate” via social network di Meloni ne sono un esempio. Siamo di fronte a “partiti patchwork”, nota Bentivegna.


In tutto questo i leader, che per una limitata stagione ci si è illusi potessero trasformarsi nei sostituti funzionali dei partiti in crisi, diventano, osserva sempre Bentivegna, attori tra gli altri, senza più possibilità di rivendicare una superiorità. Come ci ha mostrato l’incursione del cantante-influencer Fedez nel dibattito sul ddl Zan e la dinamica conflittuale che ha prodotto con alcuni leader, come Renzi e Salvini, costretti sulla difensiva. Il dominio dei leader della scena politica non scompare, ma diventa episodico. Qui siamo ormai oltre il fenomeno della spettacolarizzazione della politica, chiarisce Boccia Artieri, «che comunque costruiva per il leader un contesto strutturato, dove venivano messe in scena delle parti. Oggi, ci sono degli episodi, delle occasioni, dove ti trovi ad avere un pubblico e a poter costruire il tuo pubblico sulla tematica del momento».


Ma se non bastasse questa sorta di fluidità sincopata, il dibattito pubblico si complica ulteriormente allorché si nutre di “cattiva informazione”: informazione del tutto o parzialmente falsa fatta circolare inintenzionalmente, o per scopi non politici, ad esempio di guadagno, o con intenzione esplicitamente manipolatoria, o informazione non falsa ma fatta circolare con intenti malevoli, e così via. E accanto alla cattiva informazione, anche il confronto polarizzato e la sua espressione “incivile” aumentano la tossicità del dibattito pubblico.

 

Sono, questi, sintomi di un malessere democratico indagati estesamente nel volume dei due studiosi, che sia ne evidenziano i rischi sia propongono interpretazioni più realistiche rispetto a certe estremizzazioni (come quelle che ruotano attorno ai concetti di “filter bubbles” e “camere dell’eco”). Nella conversazione Bentivegna e Boccia ci spiegano come questo malessere a sua volta si componga di una pluralità di fenomeni che andrebbero seriamente indagati per cogliere le cause profonde degli aspetti “tossici” del dibattito politico (che a sua volta, osserviamo noi, produce effetti pericolosi per la democrazia, in un circolo causale vizioso).

 

Dalle ragioni industriali sottostanti lo sviluppo dei media, che hanno mutato radicalmente il modo di concepire la notizia, al narcisismo delle società contemporanee facilitato da una agency comunicativa che consente di intervenire a tutti in qualsiasi momento su qualsiasi argomento. Sino allo sviluppo di nuove contrapposizioni epistemologiche dove la partecipazione alla diffusione di posizioni ostili al mainstream origina non tanto dal merito delle questioni, quanto dall’occasione che tali posizioni offrono di sentirsi parte di una visione e soddisfare il proprio bisogno di identità e alterità.


In Italia tutti questi fenomeni sono facilmente osservabili. Come cittadini e fruitori di informazione e infotainment, ad esempio, assistiamo alla proposizione di contenuti e a un dibattito che spesso sfuggono dalla ricerca della realtà fattuale e privilegiano la messa in scena di narrazioni accattivanti. Nutrendo così la nebbia del disordine informativo e della post-verità. Come nel caso del vezzo di giustapporre e contrapporre tutte le opinioni, le più ragionevoli e le più strampalate, come se tutte avessero la stessa dignità, come sta accadendo da tempo attorno ai temi legati alla pandemia.

 

Accade così che anche i media mainstream, osserva Bentivegna, mettano in scena lo spettacolo dell’indignazione, offrendo occasioni di sdegno nelle quali identificarsi. Inoltre, le possibilità di trovare rappresentate tutte le idee più credibili e incredibili offerte dalla rete e dai social non trovano un contenimento nemmeno nelle fonti più accreditate, che sempre meno approntano quei filtri “a monte” che un tempo caratterizzavano, appunto, le testate giornalistiche. «Internet ci ha abituati ai filtri a valle, tutto può essere pubblicato; la responsabilità di trovare buoni filtri, capire cosa sia più affidabile o meno è ora affidato all’utente», osserva Boccia Artieri. E sempre di più anche all’utente dei canali generalisti e della carta stampata. Nel dubbio presupposto che ognuno sappia farsi la propria idea. E i contenuti più o meno strampalati, magari mostrati per essere stigmatizzati, concludono entrambi, nel gioco dell’ibridazione assumono poi vita propria trasformati e trasferiti sulle tante piattaforme.


La prospettiva che Bentivegna e Boccia Artieri propongono nella loro riflessione non è catastrofista. Entrambi ritengono, anzi, che sia necessario prendere atto di certi mutamenti e coglierne opportunità e limiti. Ma al tempo stesso, che sia anche necessario essere consapevoli dei loro effetti potenzialmente dirompenti sulla democrazia, per affrontare i quali i tanti attori del dibattito pubblico dovrebbero riflettere sulle logiche che li guidano e sulla necessità, forse, di nuove responsabilizzazioni e deontologie.