Il Pd festeggia i risultati in tutto il Paese e il suo segretario si lascia all’interpretazione di un ruolo da tempo scoperto: quello del leader di maggioranza che regge il governo Draghi. E che vorrà dire la sua sulla scelta del Quirinale

Nel vuoto delle urne si infila la piazza dell’Unita d’Italia a Trieste che protesta contro il green pass. Piazze piene, urne vuote, si diceva un tempo per disegnare il destino cinico e baro della sinistra che organizzava affollatissime manifestazioni per poi riscuotere sonore sconfitte quando si contavano i voti veri. Le parti si invertono. La fotografia degli ultimi minuti prima della chiusura dei seggi blocca Salvini e Meloni nell’atto di inseguire gli scontri di Trieste e attaccare la ministra Lamorgese nel disperato tentativo di trovare un diversivo rispetto alla batosta che stavano per prendere nel voto amministrativo.


Niente da fare. Salvini si presenta alle cinque davanti alle telecamere in Calabria, livido, sfatto, gonfio di tensione. Se la prende con i giornalisti, il governo, i ritardi. La destra straperde nella partitissima di Roma, dove termina finalmente quella lunga agonia che è stata la campagna elettorale di Enrico Michetti, un candidato così inadeguato da destare sincera pena, come scriveva Gianni Brera dei brocchi a centrocampo. Ma affonda anche a Torino dove aveva schierato il volto presentabile di Paolo Damilano, fino a qualche settimana fa invidiato anche da molti esponenti del centrosinistra. Fallisce la riconquista di Varese, un tempo capitale della Lega, amministrata dall’attuale presidente lombardo Attilio Fontana. Fatica perfino a Trieste, una roccaforte, dove il Pd correva con Francesco Russo, da sempre amico personale di Enrico Letta, ex leader dei giovani popolari, il più simile al segretario per carattere e percorso politico. E tracolla anche a Latina, dove il sindaco Damiano Colletta è riuscito a ribaltare il primo turno sfavorevole.

Perde la Lega di Salvini e la Lega di Giorgetti, perde Meloni nella versione antica e in quella civica. Sembra un’onda, così la chiama Letta, è almeno un’ondina, a favore del centrosinistra. Il Pd ha vinto, la destra ha perso, il Movimento 5 Stelle è sparito. I politici del Pd come Roberto Gualtieri e Stefano Lo Russo, come anche Matteo Lepore a Bologna, sono stati preferiti ai nomi civici della destra, pescati all’ultimo momento e quasi per caso. Letta rivendica il “trionfo senza trionfalismo”, incassa il risultato politicamente più prezioso: gli elettori dei 5 Stelle e di Calenda a Roma si sono riversati sui candidati del Pd senza alleanze e apparentamenti, per così dire in modo spontaneo. Ma non resiste alla tentazione di interpretare un ruolo da tempo scoperto, quello del leader politico della maggioranza che regge il governo Draghi. Potremmo chiedere le elezioni anticipate, ragiona, ma preferiamo che Draghi vada avanti fino al termine della legislatura. Elenca: sanità, scuola, lavoro. Passare dalle parole ai fatti sul Pnrr. E annuncia: sulla legge di Bilancio interverrò in prima persona, da deputato che torna in Parlamento. Più va avanti, più il mite Letta appare quasi minaccioso. Una colomba mannara che in modo felpato, in sei mesi, ha divorato numerosi avversari interni e esterni.

Ma il partito maggioritario del doppio turno amministrativo di ottobre 2021 resta il non voto. Un elettore su due non è andato a votare, una percentuale che sfiora il 60 per cento nelle città dove il voto è più politicizzato, a Roma e a Torino.

 


Sul piano democratico è una ferita. Anche perché la diserzione delle urne arriva in un momento di tensione sociale, più ampia di quanto segnalino le piazze no green pass. Sul piano politico il restare a casa esprime una attesa, una domanda. L’offerta elettorale è stata giudicata nel complesso inadeguata. Il Pd che stasera festeggia farebbe bene ad ascoltare le praterie degli elettori silenziosi e indecifrabili. Da stasera si apre la corsa ad attrarre quei voti rimasti congelati: delusi del Movimento 5 Stelle, traditi dalla Lega, disillusi anche dalla Meloni. Elettori che non si riconoscono nei partiti del governo Draghi e in una certa retorica del Piano di ripresa: l’ex ministro Gualtieri, uno degli artefici del piano nel governo Conte due, ha convinto circa un elettore romano su quattro, con una astensione record del 60 per cento. Elettori che non si ritrovano neppure nell’estremismo di Salvini e Meloni. Mentre M5S resta un partito populista senza popolo. Sono elettori in libera uscita, come si diceva un tempo, quando però si traferivano dal partito maggiore a quello minore. Mentre oggi escono verso l’ignoto, il pianeta sconosciuto del non voto.

Un’offerta politica che va riscritta, in vista dell’ultimo tratto di legislatura che porta al voto nazionale nel 2023. Il centrosinistra fondato sul Pd che dovrà allargarsi. Il centrodestra in cui è prevedibile una maionese ancora più impazzita, tra sovranisti, salvinisti, meloniani e berlusconiani. Il Movimento 5 Stelle è un campo di Agramante in cui è aperta la gara con chi vorrà riprendere il ruolo antico della federazione dei Vaffa, come Alessandro Di Battista. In mezzo, c’è la corsa per il Quirinale. Il Letta mannaro vorrà dire la sua. Draghi fino al 2023 è già una indicazione sulle sue intenzioni. Bisogna cercare un presidente.