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Politica
dicembre, 2021

Cristina Cattaneo: «Lotto per dare un nome a chi è morto in mare»

La più famosa tra i medici legali d’Italia dal 2013 è impegnata sul fronte dei migranti (fu lei a raccontare la storia del ragazzo con la pagella) e si batte per creare una banca dati europea degli scomparsi: «Si può fare, basta volerlo». Per restituire identità e dignità. E mandare avanti la vita dei vivi

«Non hanno ancora capito che quei morti in mare o in fondo ai barconi siamo noi». La donna che riannoda la vita e la morte, l’anonimato e l’identità, il mare e la terra, non lascia mai stare né sé né chi l’ascolta. Cristina Cattaneo, 57 anni la più celebre tra i medici legali d’Italia, impegnata anche sul fronte dei migranti da quando si occupò del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, chiama i suoi successi «cocciutaggine».

 

Parla ai politici, all’Europa (cui è rivolto l’appello per “Dare un nome ai migranti scomparsi” che pubblichiamo qui), alla gente normale. Ha strappato all’oblio e legato alle coscienze la storia del ragazzo di 14 anni affogato nel Mediterraneo con la pagella cucita nei vestiti («io l’ho raccontato in “Naufraghi senza volto”, è rimasto impresso grazie alla vignetta di Makkox») ma, se le si mostra un albo illustrato, appena pubblicato, ispirato a quella vicenda (“Ti ho fatto una valigia”), arrivata neanche a metà le si cerchiano gli occhi di rosso: «Basta così». Ha eseguito migliaia di autopsie, dice che è «come per i medici normali: vivi o morti, i tuoi pazienti non te li dimentichi, anche dopo trent’anni». Professoressa di Medicina legale all’Università di Milano e direttrice del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense) riempie di sinapsi gli interlocutori così come riempie la sua stanza, a partire dalla gigantografia sulla porta di uno scheletro romano sepolto accanto alle mandibole di due cavalli («perché tutto è cominciato con la mia passione per il passato, l’archeologia»). La sua scrivania è assediata di fogli, biglietti da visita, premi, un calendario coi gatti, un pacco di Emergency, uno scaffale vuoto con sopra la scritta “torturati”, la maschera in cartapesta col naso lungo detta “il dottore della peste”, cartelline, una bottiglia di alcol denaturato rosa, quattro fiori di ortensie secchi, raccoglitori, il poster del Bacio di Gustav Klimt, uno sgrassatore Smac, tre vasi di piantine secche, uno scatolone di capsule di Nespresso, pile di libri che formano attorno alla scrivania un orizzonte da foresta tropicale, da Vietnam. Anche la sua mail è piena: comunica via WhatsApp.

 

La vignetta di Makkox dedicata al ragazzo con la pagella di cui Cattaneo aveva parlato in "Naufraghi senza volto"

Un mucchio di pensieri e cose che trovano però un ordine preciso quando si tratta di scagliarli verso i suoi obiettivi, con semplice meticolosità. Usa spesso a proposito di morti e migranti la parola «scotomizzare», che da Treccani vuol dire «eliminare inconsciamente dalla percezione e dalla memoria eventi sgradevoli o penosi». Ed è in fondo una lotta contro la scotomizzazione, quella che fa. Si batte perché i morti abbiano un nome. Chiama in causa non tanto l’Italia, quanto l’Europa: «Dobbiamo cercare di convincere il sistema che è una cosa facile, e che va fatta: altrimenti violiamo i diritti umani». 

Lei e il Labanof siete citati come un faro nella notte: quando è iniziato tutto ciò?
«Ci siamo sempre battuti per l’identificazione delle persone, è il nostro interesse scientifico, il motivo per cui è stato costruito questo laboratorio, 25 anni fa: a Milano si facevano mille autopsie l’anno, ma si identificavano sempre meno persone. Tuttavia, poiché per ogni morto senza identità c’è probabilmente una persona denunciata come scomparsa e qualcuno che la cerca, serve un ufficio che incroci i dati. Ci sono voluti anni di battaglie perché nel 2007 si creasse l’ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse, che è ancora troppo piccolo, andrebbe potenziato. Quello dell’identità è un problema che i politici non capiscono e che non si filano molto».

Non ha un grande appeal elettorale, in effetti: è piuttosto teorico, non trova?
«Tutt’altro: è una questione etica, ma è un problema pratico. Non dare nome ai morti rappresenta una violazione dei diritti dei vivi. Sotto molti aspetti: i familiari di qualcuno che è scomparso restano incastrati in un limbo. C’è un problema amministrativo. E c’è un problema di salute mentale connesso al non sapere se tuo fratello, tua madre, tuo figlio sia morto o vivo. Si chiama “perdita ambigua”, il trauma psichico è pazzesco, conseguenze psicologiche anche molto severe. Esiste una letteratura e una casistica mondiale, su questo: ma per me la consapevolezza, lo spartiacque, è arrivato cominciando a occuparmi di migranti».

 

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Perché lo chiama spartiacque?
«Ho visto moltiplicarsi un problema che già a livello domestico è difficile da fare capire: ma, nella nostra realtà, chi cerca un morto viene comunque seguito dalle autorità; nel caso dei migranti c’è l’abbandono più totale. Uno schiaffo doppio: non si riconosce il problema e non si fa alcun passo per risolverlo. In Europa se va giù un aereo, un treno, se c’è uno tsunami, c’è la corsa per far parte delle operazioni di recupero. Nel caso dei migranti non succede quasi nulla, l’Italia è uno dei pochi Paesi che abbia fatto qualcosa. E questo ha acceso la consapevolezza di quanto sia fondamentale identificare. Anche per mandare avanti la vita dei vivi: un ragazzo di dieci anni, lasciato indietro dai genitori nel campo profughi, non può fare il ricongiungimento con i suoi parenti che vivono in Danimarca, perché gli manca il certificato di morte di sua madre e suo padre; la madre di due bambini che resta vedova non può partire per l’Australia perché per farlo serve l’atto amministrativo della morte del marito. Sono casi concreti, che abbiamo seguito. Ma al cospetto dei grandi disastri migratori gli sforzi fatti scompaiono, non bastano. Per questo serve l’Europa».

Come abbiamo fatto ad essere all’avanguardia? 
«Abbiamo avuto il commissario straordinario e poi un certo momento magico, tra il 2013 e il 2016/17, in cui si è riusciti a creare un sistema virtuoso: da allora non è migliorato niente, ci siamo fermati. Ma non c’entrano il governo gialloverde e Matteo Salvini ministro dell’Interno: quello ha cambiato la politica migratoria nei confronti dei vivi, ma per i morti è rimasto tutto uguale».

 

L'albo illustrato ispirato alla vicenda del ragazzo con la pagella, "Ti ho fatto una valigia" (Balena Gobba), scritto dalla poetessa Franca Perini e illustrato da Anna Pedron

Come sono questi protocolli virtuosi?
«Si basano in un certo senso sulla scoperta dell’acqua calda. Per identificare un morto non bastano i dati raccolti post-mortem, con l’autopsia; devi confrontare quei dati con quelli ante-mortem, cioè con quello che possono fornirti i parenti. Dopo i disastri del 3 e 11 ottobre 2013 a Lampedusa è stato fatto appunto questo: completare la parte ante-mortem, fare una call internazionale, trovare i possibili parenti. Ha funzionato. Con mille problemi, da allora abbiamo messo insieme un dataset di 67 disastri, quasi 2000 persone. È molto faticoso, perché ad esempio significa sollecitare ogni singola Procura a recuperare i dati delle autopsie eseguite nei posti più disparati, per convogliarli in questo dataset. Comunque abbiamo creato un modello: sul 3 ottobre, abbiamo dato risposta al 70 per cento delle famiglie che si sono presentate. Ora si tratterebbe di replicarlo in Europa. Creare in ciascun Paese europeo un hotspot coi dati di tutti i morti e, parallelamente, un centro di raccolta con tutte le informazioni dei familiari che hanno un parente scomparso. Incrociare i dati sarebbe la soluzione per trovare l’identità a quelle decine di migliaia di cadaveri sparsi sulle coste europee. Ecco l’acqua calda: scambiare le informazioni. Non ci vuole un mezzo stratosferico, c’è già tutto». 

Cosa manca?
«La volontà politica. La storia del ragazzino con la pagella gira da quattro anni, e mi sorprendo dal 2013 come nessun parente si sia rivolto al Tribunale per i diritti umani. L’Italia ne esce a testa alta, ma c’è anche una parte brutta: che questo è volontariato, in sostanza. L’ufficio del commissario straordinario è troppo piccolo, non abbiamo fondi, ci sono le Ong, le università, le forze dell’ordine che ci mettono del loro. Ma se va giù un aereo non è così. E persino Matteo Renzi che da premier tirò fuori dall’acqua il barcone naufragato il 18 aprile 2015, ha fatto un gesto splendido ma senza capire fino in fondo cosa stesse facendo». 

Ah no?
«Non sapeva di avviare così tutta l’operazione necessaria a identificarli: non ha capito l’enormità del gesto, altrimenti avrebbe previsto anche i fondi per dare un nome ai morti. È un po’ come i politici europei, che in genere ti rispondono: per i morti i soldi ci sono. Ma intendono che ci sono per seppellirli, non per sapere chi fossero. Eppure i morti, non soltanto migranti, ci possono raccontare tantissime cose. Quando sono entrata in scuola di specializzazione, i miei maestri, che facevano regolarmente gli esami tossicologici sui cadaveri, riuscivano a cogliere i trend di intossicazione acuta, e questo aiutava a prevenire nuove morti. Ma viviamo in società che tendono a scotomizzare il morto, a eliminarlo in quanto morto – e basta vedere come li trattiamo: mia nonna aveva con la morte un rapporto molto più schietto. Adesso, a meno che non siano palesemente vittima di reato, non sono un argomento, e quindi non si coglie neanche l’utilità che possano avere. Ci stiamo perdendo, in questo modo, tanti treni per tutelare i diritti e fare giustizia».  

Oltre che i morti, si può dire che scotomizziamo anche i migranti: meglio non vedere, no?
«Finché non li identifichi non sono persone come noi, dopo è più difficile non pensarci: se gli dai un nome, non è più una massa di carne putrida, ma qualcuno che somiglia a un tuo amico, a tuo figlio». 

Ha scoperto come si chiamava il ragazzino della pagella? 
«No, il nome era strappato. Non ha idea del numero di documenti scolastici che c’erano in quel barcone. La storia di quella pagella ha colpito, ha sorpreso: questo ci dice anche quanto sia lontana, quanto la gente non immagini che su un barcone pieno di ragazzi ci si trovano le cose che potrebbero stare nelle stanze dei loro figli. Non immagina che ci si trovano delle persone». 

Come racconta ai ragazzi, nelle scuole, questa storia?
«Quando mi capita di parlare nei licei, cerco di far capire nella maniera più asettica possibile quali sono le leggi, quali sono i diritti umani. Ma secondo me, il messaggio fondamentale da far passare è che quei ragazzi sono come loro, che hanno le stesse aspettative, lo stemma della Juventus sui pantaloncini, la carta delle merendine in tasca. È dirgli: guarda che questo sei tu. Quello che torna è emozionante, domande meravigliose, commenti, soprattutto ragazzine che aspettano fuori scuola e dicono: grazie, grazie. Ma grazie di che?».

È mai scoraggiata, esausta, di affrontare tutto questo?
«Ovviamente, anche perché non sono una crocerossina, una volontaria al servizio di una Ong: questo è solo il mio mestiere. Però devo dire che questo impatto tragico, questo bagno in ingiustizie atroci e assurdità, mi ha convinto ancora di più che questa battaglia vada fatta. E non c’è forza più grande che quella di essere convinti di una cosa». 

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