Analisi
Il presidente del Consiglio sta scrivendo il recovery plan in prima persona e con un gruppo ristretto di fedelissimi. Ma perché funzioni serve che gli apparati non si mettano di traverso
di Bruno Manfellotto
Per uno di quei paradossi di cui si nutre la politica, è assai probabile che Mario Draghi debba presto fare i conti con qualcosa di molto più insidioso del Salvini di lotta e di governo o della congenita confusione dei Cinque stelle: corre due rischi che, viva i paradossi, riguardano proprio lui.
Il primo si chiama “pubblica amministrazione”. E cioè: saprà questa rispondere alle esigenze del momento? Intanto, per sbrigarsi e per rifuggire vane governance barocche, il premier il recovery plan se lo sta dunque scrivendo da solo, come trapela da Palazzo Chigi. Con pochi amici fidati, come Daniele Franco, ministro dell’Economia e suo stretto collaboratore già negli anni del ministero del Tesoro e poi della Banca d’Italia, e Francesco Giavazzi, economista assai stimato, pur se di scuola accademica alquanto lontana.
Bene, si dirà, evviva, è la sua tazza di tè, no? Laurea brillante, master al Mit, superbo cursus honorum nella nomenklatura pubblica, un passaggio di un anno nel privato (Goldman Sachs) che non guasta, e infine Francoforte tra quantitative easing e mediazioni con Angela Merkel. Tecnico e politico: che volete di più? Ma il fatto è che Bruxelles vincola l’accesso al Next Generation non solo alla tempestività dei progetti presentati e alla loro congruità con le linee guida indicate dalla Commissione europea, ma alla effettiva capacità di spesa (i prestiti saranno erogati a rate, in base - come dire? - allo stato avanzamento lavori) e all’impegno a darsi da fare per accelerare la giustizia e rendere più efficiente la pubblica amministrazione. Ah, le riforme! Poco amate da lobby e corporazioni, che nel fermare le novità si sono dimostrate spesso più forti delle tante eccellenze che pure brillano nella burocrazia.
Mario Monti, per esempio, diceva di essere stato incatenato proprio da certi apparati ministeriali, bravissimi, quando vogliono, a impedire che le cose si facciano. In quel caso, il suo governo voleva tagliare la marea di sussidi alle imprese, ma non ci riuscì; ora, al contrario, si tratta di spendere i 209 miliardi del Recovery, ma il problema è sempre lo stesso. Per capirci: tra il 2014 e il 2020 l’Ue ha destinato all’Italia quasi 45 miliardi di euro (i cosidetti fondi strutturali e di coesione) che però, documenta la Corte dei Conti, ne ha impiegati solo 18. Dal che Monti deduce che non solo non sappiamo spendere, ma nemmeno progettare dove e come farlo.
E Draghi? Sarà proprio questa la sua principale battaglia. Che per un verso combatterà attaccando il nemico, cioè cercando far camminare meglio la macchina pubblica che conosce bene, per un altro aggirandolo: è sua intenzione «valutare il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi», ha detto nel suo primo discorso alle Camere. Traduzione: quando e dove occorre, sarà dato più spazio ai privati, che hanno interesse a fare molto e presto, e questo vale sia per i progetti del Recovery, sia per i grandi dossier ancora aperti: Ilva, Alitalia, Autostrade, Mps… Insomma, c’è debito buono e debito cattivo, e vabbè. Ma bisogna pur farlo, ‘sto debito. Presto e bene.
E poi c’è un altro pericolo per Draghi: le enormi aspettative legate al suo nome e alla sua storia, alimentate fin da quando è salito la prima volta al Quirinale ed esaltate giorno dopo giorno nella nostra tradizionale, sfacciata corsa all’agiografia (indimenticabile il loden di Monti). Continuare a dire che non c’è problema che non sia in grado di risolvere, che questa è l’ultima carta e che dopo di lui il diluvio, certo non lo aiuta, anzi lo danneggia: più lo si mitizza - adda venì Marione! - più diventa inevitabile la corsa a trovare magagne, limiti, incapacità. Un assaggio s’è già avuto con la vicenda dei sottosegretari e del ricorso ai Dpcm, e perfino con l’allarmante crescita dei contagi che, secondo la vulgata, doveva scendere al solo apparire di Super Mario. No, meglio restare con i piedi per terra, lasciare i miracoli ai santi e aspettare che parlino i fatti e le decisioni. Di cui c’è gran bisogno.