l’ex numero uno della Bce si trova ad essere il padrone dell’oggi. Mentre i partiti possono sperare di proporsi come i custodi del domani. A una condizione

Si giocherà tutta sul tempo, e sui suoi paradossi, la sfida di Mario Draghi. Egli infatti a questo punto è il leader del presente, mentre i partiti che lo sostengono appartengono un po’ al passato e un po’ al futuro. Ma possono sperare di averlo, un futuro, solo se accettano di attraversare il presente altrui senza arrecare troppo disturbo.

E già qui si intravede un primo paradosso. Il premier è infatti uomo di prospettive, di visioni lunghe, di maturazioni mai improvvisate. Si intuisce che egli preferisca la maratona alla corsa, e che come insegnava Zenone senta di arrivare prima al modo della tartaruga piuttosto che a quello di Achille. Invece ora egli si trova costretto a una rincorsa affannosa per mettere il paese al riparo dai troppo ritardi accumulati: sui vaccini, sul Recovery, sulle riforme.

Mentre i partiti debbono a loro volta disertare il presente, prendendo atto che signore di quel tempo è solo il premier. E devono semmai occuparsi del passato e del futuro, i due tempi che hanno sempre sacrificato alla loro frenesia di consenso, al “presentismo” come si usa dire. Espropriati del tempo attuale, proprio loro che sono abituati ad attraversarlo frettolosamente, concitati e trafelati, quasi sempre incapaci di ricordare le lezioni della storia e tanto più di guardare al di là delle loro convenienze più ravvicinate.

 

L’avvento di Draghi in realtà è la vendetta che il tempo consuma contro la fretta della politica di questi ultimi anni. Come a dire che andrebbe ridisegnato il confine che separa il tempo che si perde da quello che si guadagna. E che a volte l’attesa non è affatto uno spreco e l’ansia di arrivare non è di per sé un vantaggio, né un merito.

Il fatto è che, come ammoniva Brodskij, «l’unico strumento di cui un essere umano disponga per cercare di tener testa al tempo è la memoria». Mentre al contrario in tutti questi anni la politica ha pensato bene di offuscare la memoria convinta così di acciuffare il tempo e sottometterlo. Con gli effetti che tutti vediamo e ai quali Draghi dovrà cercare ora di rimediare.


Già, ma se c’è un vuoto che il premier è chiamato a riempire, in compenso c’è un pieno, un eccesso, che alle forze politiche viene chiesto di svuotare. Poiché è evidente che se i partiti pretenderanno di imporre a Draghi le loro agende (peraltro assai contraddittorie e conflittuali), l’azione di governo e la salute del paese non ne trarranno grandi benefici.


E qui si staglia l’ombra di un altro paradosso, legato anch’esso al fluire del tempo. Ed è che il calendario istituzionale si andrà a biforcare tra qualche mese, ponendo il premier e i parlamentari di fronte al bivio del Quirinale. Quell’appuntamento potrà essere il festoso capolinea di questo governo, oppure il segno che la giostra abituale si è rimessa in movimento. Nel primo caso ci si affaccerà su di un panorama elettorale. Nel secondo ci si dovrà inventare un “secondo tempo” di un governo che non avrebbe più un orizzonte visibile nel proprio calendario.

Ora, il presidente del Consiglio dà l’idea di affrontare tutti questi passaggi senza la frenesia di guardare fisso il quadrante del suo stesso orologio. Al contrario, quella sua sollecitazione a fare prima e a comunicare dopo (e a comunicare solo quel che si è già fatto) denota in lui un’idea ben precisa del tempo che gli è concesso, e di come sia giusto e appropriato utilizzarlo.


Insomma, Draghi si trova ad essere il padrone dell’oggi della politica. E i partiti possono sperare tuttalpiù di proporsi come i custodi del domani. Ma possono farlo solo se non ingombrano quella stretta e decisiva attualità che non appartiene loro. Almeno per il momento.


Viene alla mente un’altra citazione (l’ultima, giuro). Ed è di Borges che ammonisce: «il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume». In questo caso, il fiume è Draghi. Ed è tutto da vedere se infine i partiti saranno il mare in cui quel fiume prima o poi dovrà sfociare.