women power
Virginia Raggi a Roma, Isabella Conti a Bologna. Due candidature che fanno vacillare l’intera strategia dem delle alleanze, per le amministrative e oltre. Il Pd lettiano era partito per egemonizzare, ma si fa risucchiare: o dai grillini, o dai renziani. E siamo solo all’inizio
di Susanna Turco
Il primo a spendersi a favore dello women power era stato Enrico Letta. La sorte l’ha preso in parola. Voleva le donne? Eccole. Dopo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, elette capogruppo in quella che è stata forse l’apoteosi decisionista del neo segretario, Virginia Raggi e Isabella Conti. Altre due politiche - nessuna stavolta del Pd - hanno bruscamente interrotto dopo nemmeno due mesi la breve luna di miele del neosegretario dem, che s’era insediato immaginando una coalizione neo-ulivista ridotta, per il momento, alla categoria dell’isola non trovata. Due nomi, Raggi e Conti, che rappresentano i nodi irrisolti del Nazareno, gli estremi della tenaglia che comprime l’orizzonte di un partito allo stato tutt’altro che egemone: di qua i 5Stelle, di là i renziani, rischio di risucchio altissimo. Due donne con pochissimo in comune: la laurea in giurisprudenza, l’avvocatura, la giovane età (anagraficamente, in due, non fanno Silvio Berlusconi), gli astri per chi ci crede (una è nata il 18, l’altra il 19 luglio). Nulla di politico, salvo la determinazione nel definirsi «sindaca»: ad accostarle non sono le posizioni, ma la funzione.
Nei boschi il fungo chiodino attacca soprattutto gli alberi gracili e malati, creando una selezione naturale che favorisce la crescita degli esemplari più forti. In vista delle prossime amministrative Virginia Raggi e Isabella Conti attaccano i punti più gracili del Pd, o forse mostrano solo l’usura del modello giallorosa, la debolezza di chi lo propone, stanno a indicare come la realtà stia andando abbastanza altrove, rispetto anche ai disegni lettiani. Selezione della specie, a suo modo. Baluardi che smontano, da un lato, la praticabilità di un’alleanza coi grillini e, dall’altro, l’idea di guardare a sinistra più che ai moderati.
Al primo si dedica Raggi, protagonista di una manovra spettacolare anche oltre le sue speranze: in pochi giorni, addirittura soltanto due secondo la Stampa, la sindaca che Gianroberto Casaleggio volle nel 2016 nella corsa per il Campidoglio e che mai ha rotto con il mondo di Rousseau, si è messa nel sacco i principali protagonisti della politica del centrosinistra di questi mesi: Enrico Letta e il suo predecessore Nicola Zingaretti, l’ex premier Giuseppe Conte e Goffredo Bettini, amico e consigliere. Ha fatto tramontare l’ipotesi di una discesa in campo zingarettiana e portato il M5S, con l’aiuto e placet di Luigi Di Maio (altro alleato di quasi sempre), a compattarsi sulla sua ricandidatura, data fino a poco fa per improbabile, costringendo Conte a una brusca manovra di allineamento dopo mesi di promesse (ai dem) sulla propria capacità di convincerla al ritiro. Ha segnato così non solo la fine dell’ipotesi Zingaretti al Campidoglio – il governatore del Lazio era l’unico in grado di contrastarla, a stare ai sondaggi – ma ha fatto venire giù, come una scenografia di cartapesta, quella di un’alleanza organica nelle città tra M5S e Pd. Quello scenario che solo 20 giorni fa portava Francesco Boccia, responsabile enti locali del Pd, a proclamare, enfatico: «Uniremo il centrosinistra ovunque e dove possibile faremo l’alleanza con M5S in tutti i 1304 comuni al voto», «l’alleanza che fino a due anni fa appariva impossibile sarà presente in diverse città».
Ecco, l’alleanza pare ridiventata impossibile, o quasi: un gioco a distruggere più che le prove generali di una costruzione. A Roma finirà che i dem, già zavorrati dal fatto di puntare su una figura di sicuro appeal popolare come un ex ministro dell’Economia - da questo punto di vista, come estetica, candidare Roberto Gualtieri è come candidare uno qualsiasi dei suoi predecessori, da Domenico Siniscalco a Pier Carlo Padoan, passando per Giulio Tremonti - i dem dicevamo non potranno più fare neanche campagna elettorale da opposizione, come fatto sinora. Insomma un capolavoro: che, come al solito, la sindaca deve in gran parte all’insipienza altrui.
Solo a fine marzo, meno di due mesi fa, Raggi era infatti sull’orlo del baratro con la sua maggioranza (24 su 48), dopo l’addio di Gemma Guerrini, la terza consigliera grillina in tre mesi ad andarsene (la quinta da inizio consiliatura), e insomma «lo cavalcone» dell’Assemblea capitolina si reggeva solo sul voto di lei, quello della sindaca. E invece adesso, a botte di post sugli sfalci e le potature, sui giardinetti inaugurati e teatri ripuliti, un martellamento dall’alba alla tarda serata che prova a blandire anche la sinistra (da ultimo, ad esempio, il mea culpa su Ignazio Marino: «con arance e scontrini ho esagerato»), Raggi ha imbracciato baldanzosa l’andatura per la rielezione, campagna elettorale impiantata tutta su un grande classico della nazione italica: la scarsa memoria. E come darle torto. Del resto lo stesso Pd ha già messo in soffitta la campagna social lanciata a inizio maggio. Slogan: «Non può essere così. Roma merita di più, cambiamo sindaco». E a corredo card e foto di autobus in fiamme, cassonetti traboccanti, buche che inghiottono automobili, «fino all’immagine dell’ultima colata di bitume sul lungotevere che sta facendo il giro del mondo: ecco i biglietti da visita del disastro targato Raggi a Roma. Ora basta. È tempo di voltare pagina», recitava il comunicato. Tragicamente, nel giro di pochi mesi, il Pd potrebbe trovarsi - opposto delle sue aspirazioni iniziali - a sostenerla per il secondo turno. Con l’ipotesi di entrare in Campidoglio, ed avere quindi un nuovo leader: Virginia Raggi in persona.
Al polo opposto della tenaglia, c’è il caso Isabella Conti: vale a dire, là dove il Pd non rischia di farsi guidare dal M5S, rischia di farsi guidare da Matteo Renzi - prospettiva per taluni persino più atterrente. Sindaca al secondo mandato della bolognese San Lazzaro di Savena, dove l’hanno votata l’80 per cento dei 32 mila abitanti, Conti è diventata famosa come sindaca anti-cemento per aver bloccato la cosiddetta Colata di Idice, mega progetto edilizio che prevedeva la costruzione di 582 appartamenti sopra una zona verde, e di aver successivamente messo sotto accusa - per le pressioni ricevute - il sistema cooperativo, ossia il sancta sanctorum delle regioni rosse. Ex bersaniana, è diventata in quel tempo uno dei simboli del renzismo (San Lazzaro non ha mai smesso di essere una ridotta del renzismo, uno dei posti dove l’ex premier fa tappa fissa, nei suoi tour editorial-elettorali). Ebbene Conti è la zeppa che, quasi non visto, Renzi ha messo tra le zampe di Enrico Letta proprio il 6 aprile, quando i due si sono rivisti dopo esattamente 2600 giorni (calcolo Ansa) dalla famosa cerimonia del passsaggio della campanella. Quel giorno il leader di Italia Viva ha infatti lanciato la sua visione delle alleanze (non il campo largo ulivista, ma l’apertura ai moderati) ed en passant proposto un nome per Bologna, dove invero il Pd cinschiava balcanizzato da mesi attorno alle primarie e a varie candidature, in particolare quella degli assessori Matteo Lepore (zingarettiano, lettiano, detto «il predestinato») e Alberto Aitini (base riformista, di Lorenzo Guerini e Luca Lotti).
Isabella Conti è ufficialmente entrata nell’agone solo venti giorni fa in vista delle primarie del 20 giugno, eppure il tempo è bastato per spaccare a metà il Pd, come s’è visto plasticamente anche l’altro giorno alla processione della Madonna di San Luca. Spaccato nel modo che solitamente in ultimo gli viene più facile e che convenzionalmente possiamo definire pro e anti Renzi, per quanto Conti abbia lasciato tutte le cariche in Italia Viva e si ostini a definire se stessa «isabelliana». Allo stato infatti c’è da un lato il predestinato Lepore, forte nella sinistra del partito e nel dialogo con associazioni, volontariato, civici in genere, dalla consigliera Clancy (sua vice nel ticket) al mondo di Coraggiosa guidato dalla vicepresidente in Regione Elly Schlein. Dall’altro lato, con Conti, tutto ciò che nel partitone sta più a disagio: a partire dallo stesso Aitini, che si è ritirato dalle primarie e dimesso dalla carica di segretario cittadino del Pd (si parla di ticket anche qua), passando poi per altri nomi di ex possibili candidati, come l’assessore Marco Lombardo e l’eurodeputata Elisabetta Gualmini, già vice dell’attuale governatore dell’Emilia-Romagna.
Attorno proprio a Stefano Bonaccini, già in predicato di candidarsi per la segreteria nazionale, girano peraltro interrogativi: anzitutto, mentre i suoi si schierano con la Conti, lui, tradizionalmente accusato di connivenza col renzismo, si sta guardando bene dal ripetere e quel «lo stimo» con cui tiepidamente in febbraio benedisse la candidatura di Lepore, il che vuol dire lasciar spazio a qualsiasi tipo di supposizione sul futuro. Gli interrogativi si fanno poi paradosso, al livello di immaginario: il “modello Bonaccini” è infatti quello grazie al quale, subito prima della pandemia, il centrosinistra guidato da un (ex) renziano, alleato con la sinistra ma non con i 5Stelle, riuscì a sconfiggere la Lega di Matteo Salvini in una specie di tutti contro uno che funzionò. Bene, di quella bandiera tenta di appropriarsi Lepore che però, la usa in funzione divisiva, per la serie: non è passato Salvini, non passerà Renzi. Non propriamente il preannuncio di un’apoteosi di consenso. Mentre Conti, che avrebbe in teoria un profilo bonacciniano, si è buttata sul modello milanese e, essendo di chiara filiazione renziana, dice «Farò come Sala, da indipendente vincerò le primarie» (ha peraltro dalla sua i verdi, come il sindaco di Milano Beppe Sala).
Ed è così che tra Roma e Bologna, a un mese dalle primarie, s’intravede concreta la prospettiva che il Pd, invece di essere il partito egemone della vocazione maggioritaria, diventi l’egemonizzato. Risucchiato di qua dai grillini, di là dai renziani: mai da se stesso. E siamo appena all’alba di quella che doveva essere la costruzione di un nuovo centrosinistra: figuriamoci il prosieguo.