Dopo i primi cento giorni passati a studiare la pandemia e riscrivere il Pnrr, il capo del governo per continuare l’ascesa deve superare il ruolo di uomo dei numeri – come ha fatto al Museo di via Tasso il 25 aprile. Ma per i partiti resta ancora un marziano (e la cosa è reciproca)

In cento giorni non è diventato meno marziano, lui per loro. E nemmeno loro, meno marziani per lui. Mario Draghi e i partiti, una scintilla che non c’è. Ma come, io gli parlo di piani di investimenti e loro di coprifuoco? Ma come, noi gli parliamo di libertà e lui di crono-programmi? Basta guardarli quando sono negli stessi ambienti: una distanza abissale, una estraneità reciproca, totale, come se si muovessero su piani diversi della realtà, paralleli e intangibili. In tre mesi - dal 3 febbraio quando, incaricato dal capo dello Stato Sergio Mattarella, Draghi enunciò al Quirinale in tre parole il suo programma di governo («risposte all’altezza della situazione») - c’è stato giusto il tempo per riaversi dallo tsunami (loro) e imparare a gestire il binomio microfono-mascherina (lui) - non del tutto, in entrambi i casi. Ma le ali della sintonia non si sono mai aperte.


L’adorazione iniziale è stata sostituita dal disagio, sentimenti entrambi non egualitari, non paritari, che prevedono un sopra e un sotto. Lui sopra, naturalmente: King Mario, Re Covery, sovrano assoluto del debito, del deficit, della «Ricostruzione», delle telefonate a Merkel e von der Leyen. Loro sotto, a fare il varietà, a sventolare le bandiere di cose che difficilmente si faranno (lo ius soli), a litigarsi per «stabilire fino a che ora si può mangiare il risotto alla pescatora», ha scritto il Foglio. Gli applausi di affamato sollievo con i quali a metà febbraio fu accolto il primo discorso dell’ex presidente della Bce al Senato, per il voto di fiducia al governo (gli fecero la ola anche quando promise «tempi certi» per le informazioni su zone gialle e rosse, e del resto in quei giorni, appena scampata l’ombra del voto anticipato, bastava niente per essere felici), sono stati sostituiti a fine aprile, per il voto sul Recovery Fund, con dei battimano colmi di incertezza, insicurezza, stile elefanti in cristalleria, sottotesto: «Si dovrà applaudire, adesso?». Persino Matteo Renzi martedì scorso ha rinunciato a fare il suo show alla buvette, con il che s’è detto tutto. Draghi, del resto, quel giorno ha esordito in Aula per ben due volte, rivolgendosi così ai senatori: «Onorevoli deputati». Una gaffe che parla da sola: per Draghi si è trattato di un foglio da leggere (quello sbagliato, che era destinato alla Camera) per chiunque altro, là dentro, si sarebbe trattato di posti e volti noti, sarebbe bastato guardarsi attorno per non sbagliare saluto e destinatari. I senatori comunque hanno applaudito, nel dubbio.


Del resto, per quanti paragoni si facciano con il governo guidato da Mario Monti – e forse là l’appeal mediatico era persino superiore - mai forse come finora i compiti sono divisi: i partiti latori del consenso, dei voti, comunque impegnati per lo meno a non farsi dimenticare dagli elettori. Il presidente del Consiglio detentore della credibilità. Un esempio plastico di questo dualismo si è avuto nei giorni scorsi: con Draghi al telefono, intento a sbloccare le perplessità europee sul Recovery italiano, i partiti a darsele su aperture, orari, mozioni, ministri della Salute. Come meccanica potrebbe anche funzionare, bisogna vedere cosa lascerà dietro di sé quanto a credibilità del sistema nel suo complesso.

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Ora, esattamente a metà strada tra l’incarico di febbraio e l’inizio del semestre bianco (agosto), ci troviamo davanti a una forbice. Da un lato, sul piano operativo, dopo aver passato il primo mese a studiare pandemia e vaccini, il secondo a riscrivere il Recovery (mancavano riforme e cronoprogramma), Draghi ha sin qui seguito come filo rosso la linea indicata nel suo primo breve discorso da presidente incaricato, quando parlò di «unità», - poi «spirito repubblicano» - da costruire su alcuni obiettivi e previo pressoché azzeramento della precedente linea di comando (da Arcuri a Borrelli): «Vincere la pandemia, completare la campagna vaccinale, offrire risposte ai problemi quotidiani, rilanciare il Paese». Ha invece lasciato del tutto intoccato il passaggio di una sua crescita: dalla bidimensionalità del Supermario venuto dalla Bce alla tridimensionalità di una riserva della Repubblica che aspiri, dopo l’esperienza di Palazzo Chigi, ad ascendere ancora.


Un primo segno di vita, in questo senso, si è avuto solo adesso, quando per celebrare il 76° anniversario del 25 aprile, Draghi ha scelto il museo della Liberazione di via Tasso, carcere simbolo dell’occupazione nazifascista, invece delle consuete Fosse Ardeatine, mèta per così dire più inclusiva. Qui ha toccato una serie di temi persino eccessiva per un discorso breve, comunque molto denso: il dovere della memoria, verso una «ricorrenza che non deve invecchiare» e che va protetta da «troppi revisionismi riduttivi e fuorvianti», anche ricordando che «non fummo tutti, noi italiani, brava gente»; la sottolineatura di come si stiano appannando «i confini che la storia ha tracciato tra democrazie e regimi autoritari», mentre cresce il «fascino perverso di autocrati e persecutori delle libertà civili»; la condanna verso il «linguaggio d’odio» che «contiene sempre i germi» della violenza e «genera consenso per chi calpesta libertà e diritti». Parole che chiaramente hanno un altro respiro rispetto alle percentuali del Recovery.


Chiamare le cose col loro nome, farla breve, è una caratteristica del personaggio, che però finora s’è vista soprattutto nei fuori programma e nelle gaffe. Nelle introduzioni fatte a braccio ai discorsi scritti, come quando nella visita a Bergamo per ricordare un anno di pandemia, dopo essersi rivolto (da marziano) al «signor sindaco», cioè a Giorgio Gori, disse con una convinzione che non è parsa formale, che «lo Stato c’è e ci sarà». La si è vista, anche in alcune conferenze stampa: in quella dedicata al decreto Sostegni, quando non esitò a chiamare «condono» ciò che fino a pochi giorni prima si era costretti a chiamare «pace fiscale». Oppure quando, a inizio aprile, ha definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan «un dittatore». Uno scivolone diplomatico che ha fatto infuriare Ankara, indicativo tuttavia di un modo di stare nelle cose, crudo anche nel realismo: dei dittatori possiamo aver bisogno. Lo stesso di quando disse quel che pensa dei partiti: «Tutti sono entrati al governo portandosi eredità di vedute, convinzioni, annunci. Tutti hanno le loro bandiere identitarie». Tutti uguali, in partenza. Poche storie. Quando, parlando del Recovery plan, Draghi si è detto certo dei tempi indicati, ha chiarito: «Il cronoprogramma ve lo do perché sono sicuro dei tempi», laddove «sicuro dei tempi» è un’espressione irrintracciabile nel lesssico di un politico. O ancora, quando, per difendere il ministro Roberto Speranza dagli assalti leghisti, il premier ha annullato la possibilità di attribuirgli dichiarazioni via retroscena, fornendo lui stesso il virgolettato in conferenza stampa: «A Salvini ho detto: ho voluto io Speranza nel governo e ne ho molta stima» (Casalino avrebbe avuto un mancamento). Chiarezza che arriva anche all’errore plateale, come quando, condannando chi «salta la fila per vaccinarsi» o «le platee di operatori sanitari che si allargano», il premier ha fatto l’esempio degli «psicologi di 35 anni»: peccato che quest’ultima categoria sia stata vaccinata proprio per volere del governo.

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Si tratta del resto di un uomo che avendo trascorso gran parte della sua vita in posti di potere, passando dall’uno all’altro con l’agilità di un Tarzan tra le liane («il tempo del potere può essere sprecato nella preoccupazione di conservarlo», ha detto nel discorso di fiducia alla Camera, sicuro che nessuno potesse pensare a lui), ha però di rado ricoperto ruoli prettamente politici. Quello più significativo, fu di direttore generale del Tesoro, all’inizio degli anni Novanta. Di qui, una visione apparentemente ottimistica delle grane che può riservare la politica. A proposito delle riaperture, dossier decisamente problematico nei rapporti con la Lega di Salvini – tanto che poi proprio il Carroccio si sarebbe astenuto in Consiglio dei ministri creando «un grave precedente» - Draghi infatti era arrivato a descrivere il dissenso tra i partiti in cabina di regia parlando di «membri che avevano in comune una strada verso cui andare e poi differenze di vedute sui singoli aspetti» ma complessivamente di una «atmosfera eccellente». Ingenuità o desiderio di restarne fuori?


Politicamente, più che la tenuta del governo, Draghi ha un problema di squilibrio interno, che finisce per riflettersi anche sulla sua immagine pubblica. C’è infatti una pesante differenza tra lo stato di salute del centrodestra e quello del centrosinistra: di qua c’è il mondo guidato dalla Lega di Salvini, ma anche dai Fratelli d’Italia, unico partito all’opposizione e nemmeno troppo (si è astenuto nel volto in Parlamento sul Recovery), guidato peraltro da una Giorgia Meloni che Draghi ha messo sotto osservazione sin dal voto di fiducia al governo (quel giorno fu l’unica interlocutrice verso cui palesemente si girò, interessato); un mondo comunque florido, in espansione. Di là, al contrario, vi sono le macerie del centrosinistra post governo Conte II. Con il Movimento Cinque Stelle in pieno sfascio, diviso a essere ottimisti tra dimaiani e contiani – con entrambi in fronti in via di sbriciolamento ulteriore. E con il Pd che, nonostante il vento nuovo portato dall’arrivo di Enrico Letta, si rivela ogni giorno di più ormai ridotto a serbatoio di classe dirigente, più che vero e proprio partito. Una differenza che nelle felpate stanze di Palazzo Chigi si può arrivare a definire da «centrodestra estroverso e centrosinistra introverso». Ma che tuttavia non aiuta a procedere: mancando la gamba sinistra, è Draghi stesso a dover fare da termine dialettico a Salvini. Pur continuando a trovarsi a suo agio a lavorare con il ministro Giancarlo Giorgetti, uomo d’apparato più che di partito, ma pur sempre leghista. Nella mancanza totale di un suo possibile pendant a sinistra.


Il paradosso è dunque un premier che appare più moderato di quanto non dicano le parole dei suoi discorsi pubblici e la sua formazione da economista e cattolico di sinistra. Né del resto pare personaggio incline a indossare la felpa di Open Arms come ha fatto di recente il segretario del Pd Letta. Gesti che gli sono lontani per formazione e per carattere. Proprio i temi più identitari della sinistra sono in effetti quelli sui quali Draghi latita in maniera più evidente: in questo senso la «soddisfazione per quel che fa la Libia per i salvataggi» dei migranti, espressa in occasione dell’incontro a Tripoli col primo ministro Abdelhamid Dabaiba, fa tutt’uno con la risposta (poi corretta) sulla cittadinanza per Patrick Zaki: «È un’iniziativa parlamentare, il governo non è coinvolto al momento», aveva risposto il premier in conferenza stampa, nonostante il Senato avesse appena votato un ordine del giorno che impegnava il governo ad occuparsi della questione. Si tratta, chiaramente, di mondi, sensibilità, temi ai quali Draghi non è avvezzo. Né pare determinato a diventarlo in futuro. Punta dell’iceberg, questi due esempi, di un atteggiamento abbastanza generale: Draghi si occupa dell’emergenza, sanitaria ed economica, dai vaccini al recovery, ma non pare intenzionato a fare ulteriori rivoluzioni. Tutti i dossier non strettamente necessari e funzionali a quello scopo, a cominciare dalla Rai, sono lasciati ai partiti o comunque gestiti nell’ordine delle cose, senza particolari innovazioni. Quelle che avrebbe interesse ad introdurre un leader politico, non un Draghi. Come a dire che il compito è già sufficientemente complicato così, senza felpe.

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