I contrasti con i paesi dell’Est, la necessità di abolire l’unanimità nel Consiglio, i corridoi umanitari per i migranti e il piano comune di accoglienza. Parla il presidente del Parlamento Europeo

La pandemia non ha soltanto scosso l’Europa dai suoi dubbi esistenziali. Ne ha chiarito le priorità per il futuro, dopo quindici anni di incertezze. «Ha bloccato l’economia e rischiato di bloccare anche la democrazia perché se si fossero fermate le istituzioni non avremmo avuto gli strumenti per rispondere alla crisi», dice nel suo ufficio di Bruxelles David Sassoli, al vertice dell’Europarlamento in questi primi due anni di legislatura: «Abbiamo tutti fatto uno sforzo intenso, imprevisto e non scontato. Il primo atto della pandemia è stato quello del Parlamento europeo che ha liberato i fondi di coesione per reindirizzarli verso l’emergenza Covid-19. Poi via via abbiamo capito la profondità della crisi negli stati membri e sospeso sia le vecchie regole del patto di stabilità e crescita, inadatte ad affrontare l’emergenza, sia le regole sugli aiuti di stato, incoraggiando i 27 a spendere. Abbiamo varato nuovi strumenti come “Sure”, con la prima emissione di obbligazioni comuni, destinate a finanziare la cassa integrazione, e il Recovery fund accompagnato dal meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto».

 

Come ha cambiato la reazione delle istituzioni europee questa pandemia?

«Esiste una profonda differenza su come l’Europa ha affrontato questa crisi rispetto a quella di un decennio fa. Questa volta si è puntato sulla ripresa economica, su obiettivi comuni come il Green Deal, sulla condivisione del debito, e si è data importanza alla tutela dello stato di diritto, un tema molto sentito che è entrato fare parte del dibattito europeo. Durante la crisi greca, l’austerity aveva scardinato il principio della solidarietà. Il clima era diverso allora e diverso era anche solo due anni fa, quando abbiamo affrontato le elezioni con partiti e opinioni pubbliche che volevano uscire dall’Euro e dall’Europa. Oggi è tutto cambiato, gli europei vogliono restare in Europa e chiedono di affidarle più competenze, come la politica sanitaria. È il risultato dello sforzo fatto per dare protezione adeguata a questa Unione». 

 

Perché oggi è tanto importante il tema dello stato di diritto? A causa di Ungheria e Polonia?

«In parte sì perché fanno di tutto per non rispettare i trattati. Ma l’importanza della questione deriva anche della consapevolezza che se l’Europa perde la caratteristica di essere il luogo delle libertà non ha nessuna possibilità di avere voce sulla scena internazionale e di essere riconosciuta come l’esempio al mondo in cui democrazia, libertà e diritti sociali sono garantiti. Nei dibattiti nazionali non ci si rende conto della forza dell’Unione europea e del richiamo che esercita all’esterno».

 

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Dopo anni pavidi pare che sul tema dei diritti fondamentali la Commissione si stia finalmente muovendo. La pandemia ha avuto un ruolo nell’evidenziare l’urgenza del loro rispetto?

«La pandemia ha messo in evidenza il forte antagonismo tra i sistemi autoritari e quelli democratici. È in atto una lotta tra i due per determinare quale è il più efficiente, quello capace di dare risposta in caso di emergenza. L’Unione si sta dimostrando all’altezza della crisi, pur con tutti i difetti. Certo, i 14 mesi di Covid-19 ci hanno fatto capire che dovremmo avere più presenza e autorità a livello internazionale senza perdere la nostra natura di casa della democrazia».

 

La Corte costituzionale polacca ad agosto dirà se il diritto europeo prevale su quello polacco o meno. È un momento cruciale ora che la Corte europea ha chiesto alla Polonia di smantellare le riforme che pongono la magistratura sotto il controllo politico...

«Il diritto europeo prevale su quello nazionale e le indicazioni della Corte devono essere rispettate. La Polonia deve ritirare le nuove leggi sulla magistratura. È preoccupante che non ci sia stato nessun arretramento né ripensamento sull’introduzione delle leggi contestate. Il verdetto della Corte amplifica le critiche fatte dalle istituzioni europee, dà loro sostanza giuridica. E arriva subito prima di una nuova procedura d’infrazione contro la definizione di zone Lgbtq-free. Sul tema anche l’Ungheria è sotto osservazione. E il governo ungherese non sta certo tendendo una mano all’Europa. La questione dell’uso delle risorse dei Recovery fund dovrà essere valutata sulla base del rispetto dei diritti fondamentali, della comunità Lgbtq, della libertà di stampa, delle Ong, dell’indipendenza della magistratura».

 

Ci aspetta un autunno infuocato...

«Il clima è teso perché i meccanismi sanzionatori dell’Unione dovrebbero essere meglio precisati e non lo sono anche perché fino ad oggi c’è stata la volontà politica di passare sopra ogni vicenda. Adesso il clima è mutato. Parlamento e Commissione non faranno passi indietro. E se c’è la volontà politica non bisogna farne una questione burocratica. Il modo per sanzionare si troverà, partendo dalla vigilanza sull’uso dei soldi. Ad esempio, sarebbe l’ora di verificare come l’Ungheria ha speso i denari del pacchetto di Coesione della legislatura precedente, una verifica che si può fare facilmente. Dove e a chi sono finiti i soldi dei contribuenti europei destinati all’Ungheria?»

 

Ritiene plausibile l’ipotesi di un allontanamento dall’Unione di Polonia e Ungheria?

«Dieci anni di Orbán hanno piegato l’Ungheria. Crediamo che le opinioni pubbliche di Polonia e di Ungheria siano ancora attratte dal progetto europeo ma il problema sono i governi. Abbiamo dubbi che, forzando le garanzie costituzionali e alzando muri, stiano facendo gli interessi dei cittadini e non quelli delle classi dirigenti».

 

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A proposito di muri, come vede la proposta del segretario del Pd Enrico Letta di far gestire all’Europa e non all’Italia le operazioni di salvataggio in mare?

«È anche la mia proposta, quella che predico da un mese e mezzo! Con Enrico siamo in sintonia. Serve una grande operazione europea di salvataggio in mare, che includa le attività delle Ong. Un’operazione che raggiungerebbe due risultati. Non farebbe morire la gente in mare e consentirebbe all’Unione di avere una programmazione meno volontaristica per la redistribuzione dei migranti. L’Unione sarebbe obbligata a farsene carico. La questione va guardata con pragmatismo perché i movimenti di persone sono in aumento nel mondo e dobbiamo farci trovare pronti con una vera politica europea su immigrazione e asilo. Dovremmo aprire dei corridoi umanitari perché la gente deve potere entrare in Europa. Tutti e 27 i Paesi hanno bisogno di forza lavoro ed è nel nostro interesse accoglierla. L’Europa dovrebbe fissare delle quote rispetto alle necessità dei mercati del lavoro e procedere con un grande progetto di integrazione».

 

Il rilancio europeo sta passando anche attraverso quello italiano?

«L’Italia di Draghi è autorevole ma non è che il governo precedente abbia fatto male in Europa. Ormai sono anni che l’Italia ha peso in Europa. Il governo Conte ha fatto la trattativa sul Recovery e poi Draghi ha accresciuto ulteriormente il prestigio italiano, come è stato chiaro durante il G7 e il vertice Nato con Biden, dove le sue riflessioni sono state ascoltate con molta attenzione. Il governo ha tutta l’autorevolezza per indicare con gli altri partner la strada della nuova Europa».

 

Una strada che sarà meglio delineata dopo le elezioni tedesche di settembre?

«Difficile predire il risultato delle elezioni tedesche anche se è chiaro che ci sono solo due scenari possibili: una coalizione con o senza Cdu. Ma è troppo presto per dirlo, anche perché il governo non si avrà il giorno dopo le elezioni ma, visto che stilano un programma dettagliato di governo, lo avremo a fine anno».

 

Sotto la sua presidenza è cominciata anche la Conferenza dell’Europa. Dopo avere ascoltato i desiderata dei cittadini, potrebbe portare a dei cambiamenti nella struttura dell’Unione?

«Abbiamo già ottenuto due risultati non trascurabili. Il primo è che la Conferenza avrà una prima conclusione sotto la presidenza francese ma non finirà nella primavera 2022: potrà andare avanti per arrivare a conclusioni ambiziose per le quali c’è bisogno di tempo. Il secondo è che non esclude che si possa parlare di revisione dei Trattati, particolare importante se vogliamo cambiare le regole del gioco europeo. Alcune priorità sono chiare: aumentare il potere di iniziativa legislativa del Parlamento, che ora può solo lavorare sulle proposte della Commissione, eliminare l’unanimità di voto in sede di Consiglio europeo e una politica sanitaria europea».

 

Sempre che le destre europee lo permettano. Come è cambiata la dinamica della destra e della sinistra nell’Europarlamento in questo biennio?

«Abbiamo iniziato con una “maggioranza Ursula” per soli otto voti e ora abbiamo un ampio fronte europeista. Non credo che la scomposizione e ricomposizione della destra porterà a un partito della destra europea perché le varie destre non condividono gli stessi obiettivi. Noto invece che sta avvenendo un fatto non scontato, cioè che molti partiti di destra non vogliono più uscire dall’Unione ma chiedono un rafforzamento dell’Europa governativa delle nazioni. Un passo indietro per noi ma un passo avanti per loro. È una riflessione diversa da quella fatta all’epoca di Trump, che scommetteva sulle nostre divisioni per indebolirci. È una riflessione in seno all’Unione e non al di fuori».