Marco Travaglio
Bersaglio facile
Anni fa presentai un libro di Marco Travaglio, uno dei millemila, dei quali parlo con reverenza perché vendono molto di più dei miei, e che comunque invito ad acquistare anche per fare scherzi ad amici di qualunque schieramento politico. Principalmente renziani, al momento. Insieme a noi c’era il costituzionalista Augusto Barbera il quale, al termine della serata, ebbe a prendersela con me perché mi aveva ritenuto troppo affine al direttore del giornale dei giusti. Può darsi avesse ragione. Del resto era il periodo in cui tutti credevamo che Travaglio fosse di sinistra perché insieme a tutti noi (e persino al suo mentore, Indro Montanelli, che parlandone da vivo era stato anche un bel fascistone) combatteva il pensiero unico berlusconiano. Poi le cose cambiarono e parecchio fino all’apogeo del Fatto Quotidiano che, è bene ricordarlo, deve il proprio titolo alla gentile concessione di Enzo Biagi. che sta ai toni di Travaglio come i miei pettorali stanno a quelli di Alessandro Gassmann.
Il fatto è una specie di monumento all’ego di chi lo dirige le cui fondamenta albergano nell’indubbia efficacia televisiva del nostro. Lo chiamano per alzare la voce, sbeffeggiare, sciabolare, e lui non si tira indietro. specie a debita distanza dal proprio bersaglio è una sorta di pugilatore invincibile. E se gli si muove una qualche forma di critica, dall’alto di una superiorità etica riconosciutagli da molti, arriva addosso al reprobo una colata di materiale organico praticamente inestinguibile. fateci caso: il 90 per cento dei suoi editoriali servono a colpire un qualche bersaglio (ho avuto questo onore) che gli ha tagliato la strada. con quella sorta di linguaggio a metà tra satira e mattinale della questura che costituisce il collante della fanbase. Detto questo, ha anche qualche difetto. però… ecco, però non ci si può esimere dal notare che la piena di indignazione coatta da cui è stato investito nei giorni scorsi sia figlia del “metodo Travaglio” applicato al suo inventore. Estrapolare parole, decontestualizzare, condannare in base a un pregiudizio e a un contingente tornaconto reputazionale. Con una importante differenza: un giornalista dice quel che pensa e, ove diffami, sconta il fio attraverso i tribunali. Il resto sono opinioni legittime. I politici che l’hanno travolto, i regolatori di conti a tempo scaduto, rappresentano invece un potere. E mai dovrebbero scatenare l’odio verso chi fa un mestiere diverso. Chiamiamolo contropotere.
Esaminiamo l’accaduto: ospite a una festa della cosiddetta sinistra radicale, Travaglio definisce Mario Draghi «figlio di papà» e gli attribuisce la colpa di «non capire un cazzo» nell’ambito di temi diversi dall’economia. La prima definizione è forse ingenerosa, ma attiene a chiunque faccia una carriera anche adamantina partendo da una classe sociale avvantaggiata.
La seconda è un giudizio politico, ancorché colorito. In sintesi, nulla di trascendentale.
Invece, per un paio di giorni, la claque interessata dell’ottimo premier attuale ha pensato bene di usare l’accaduto per un vero inciaggio social, roba da 5 stelle degli esordi, propedeutico a un unanimismo che, di solito, corrode chi ne è oggetto. Morale: l’unico che dovrebbe preoccuparsi di questa malafede è proprio il presidente del consiglio. Di norma, gli aedi interessati stanno già pensando al prossimo cavallo.
GIUDIZIO: ATTENZIONE