Mette Falcone e Borsellino sullo stesso piano di Arnaldo Mussolini, affermare senza elaborare. Un metodo vero e proprio, usato anche da altri e da cui difendersi

La metodologia strisciante del fascismo di ritorno ha fasi assai precise. La prima è quella di provocare sul piano della parità. Di porre cioè sul tavolo argomenti difformi e diversi come fossero equipollenti: mele come fossero pere, carnefici come fossero vittime, princìpi come fossero semplici avvenimenti. Un sistema preciso di disabilitazione degli argomenti in corso, dei dibattiti in atto, attraverso formule scenografiche, non supportate e, spesso, lasciate a consumarsi nella semplice declamazione.

 

Proporre di rinominare uno spazio, a suo volta rinominato, è una dimostrazione chiara di questo sistema di parificazione più provocatorio che sostanziale. Per questo la proposta del sottosegretario leghista del governo Draghi, Claudio Durigon, di riportare ad Arnaldo Mussolini l’intestazione del parco di Latina oggi dedicato ai giudici, vittime della mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è meno innocua di quanto sembri.

 

Il Mussolini a cui fa riferimento Durigon dunque non è Benito, ma Arnaldo, il fratello minore, lo spin-doctor del Duce, che, per chi ha studiato abbastanza, è stato tutt’altro che marginale nella configurazione politica e filosofica del Partito nazionale fascista. Arnaldo Mussolini è stato il principale lessicografo del linguaggio fascista; quello che sapeva moderare i termini, ma specificare e, fare corposi, i concetti.

 

Grazie ad Arnaldo, Benito capì che la stagione dell’anticlericalismo poteva dichiararsi finita e che, anzi, era necessaria una svolta diplomatica che tenesse conto del fatto che i religiosi che simpatizzavano per il fascismo, anche nelle alte sfere, erano assai di più di quelli dissidenti. Da qui i Patti Lateranensi.

 

Arnaldo Mussolini risistema il vocabolario fascista sull’onda di quel domestico buon senso di frasi ad effetto, apparentemente innocue, rivolte a gente senza nessuno strumento per decrittarle. Arnaldo Mussolini sistema la linea de Il Popolo d’Italia diventandone direttore amministrativo proprio quando suo fratello maggiore viene nominato primo ministro. Tutte cose che nemmeno al sottosegretario Claudio Durigon, probabilmente, interessa di conoscere, o conoscere così nello specifico. Vale a dire che applicare un punto di vista non significa necessariamente elaborarlo. Anzi il fascismo corrisponde proprio all’affermare senza elaborare.

 

A Durigon basta che quel parco torni ad essere il parco Mussolini, a lui non importa che si faccia differenza tra Mussolini e Mussolini, perché fra tutte le cose che afferma di non sapere, fra le pieghe dell’ingenuità che quest’omone millanta, sicuramente non esiste quella di evitare che una cosa valga l’altra: le vittime della mafia versus uno fra i più importanti, influenti e ascoltati, teorici del fascismo. Esattamente sullo stesso piano.

 

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La pedanteria dell’immacolato Durigon si limita alla specifica che quando lui dice Mussolini non afferma Benito, ma Arnaldo. Come se quest’ultimo, sul piano delle responsabilità storiche, non fosse abbastanza importante. È un discorso, quello sul peso politico, che porta assai lontano e che alberga in tutti coloro che scelgono la pedanteria solo quando gli fa comodo. Badate bene: vale la pena di chiarire che Arnaldo non è Benito, ma non che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono Arnaldo Mussolini.

 

E si passa al secondo sistema della metodologia strisciante del fascismo di ritorno. E sarebbe quello di usare la democrazia contro la democrazia. Quando, per esempio, Giorgia Meloni tratta questioni di genere, o gender, sta parlando di lei. Proprio di se stessa. Della sua figura di donna e madre, e leader politica, del ventunesimo secolo. Non sa, o finge di non sapere, che quando auspica, con furore erinnico, la famiglia «regolare» mima esattamente quei politici, prodotti dal suo sistema, che, sotto il fascismo, tuonavano contro persino l’ipotesi delle donne in politica. Arnaldo Mussolini per primo avrebbe trasecolato per la sua stessa esistenza in quanto donna sui banchi del governo, fuori dal ruolo «normale» di filatrice, custode del focolare e fattrice di maschi per la patria, che il regime le aveva riservato. Sempre un passo dietro al proprio maschio che compiva gesta eroiche, mentre lei allevava la famiglia numerosa e amministrava la casa.

 

Giorgia Meloni è dunque l’incarnazione di un risultato della democrazia. Per ritornare al modello di famiglia «normale» che lei auspica, e di società ordinata che lei agogna, la nostra pasionaria dovrebbe, con coerenza, ritirarsi dall’attività politica, sposarsi, e allevare un tot di figli. Magari far entrare in politica l’attuale compagno, dopo il matrimonio s’intende, come vorrebbe qualche integralista della sua stessa compagine che già oggi non vede di buon occhio essere diretto da una donna. Ma è evidente che il problema della democrazia è che quando c’è si può esercitare il fascismo, mentre quando c’è il fascismo di democrazia non se ne può parlare.

 

Chi approfitta oggi delle regole democratiche lo fa con la coscienza che quelle stesse regole saranno le prime ad essere sacrificate quando arriva il fascismo, come un generale che ordini di interrare il tunnel attraverso il quale è riuscito ad espugnare una rocca. Per questo varrebbe la pena di spingersi a una «modesta e pericolosissima provocazione» e cioè fare un appello ai cittadini italiani, anche quelli progressisti, perché votino in massa la Meloni e la mettano in grado di governare. Che la spostino, cioè, fuori dalla comfort zone dell’opposizione costante, l’opposizione in poltrona, dedicata a una nazione immersa nel pressapochismo.

 

Vediamo per quanto tempo potrà blindare i porti, vietare il diritto di abortire, vietare la libertà di scegliersi un compagno o una compagna, intitolare strade a gerarchi, limitare la violenza domestica, controllare la libertà di stampa, occupare posti chiave, ripristinare una nazione maschia che se ne frega eccetera eccetera. Tuttavia si decida se aderire a questa dadaista provocazione solo dopo aver tenuto conto del pericolo che essa comporta, un pericolo che è il succo del pensiero fascista e cioè di scardinare un sistema approfittando di quello stesso sistema: in democrazia, infatti, si può ancora fare opposizione, nel modello auspicato dalla Meloni o dai tanti Durigon che ci circondano, no.