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Politica
gennaio, 2022

Meglio Fini che Fininvest: quando Silvio Berlusconi ha sdoganato l’estrema destra

L’odio per la sinistra, l’ossessione dei comunisti, l’endorsement per l’allora segretario dell’Msi candidato a Roma. Era la fine del 1993 e il Cavaliere, alla vigilia della “discesa in campo”, sceglieva il suo schieramento e spiazzava i centristi

Parliamoci chiaro, Silvio Berlusconi non è uno sciocco. Non lo è mai stato. Soprattutto non è un improvvisatore. Al contrario. Programma tutto con maniacale cura dei dettagli. Sapeva benissimo quante polemiche avrebbe scatenato il suo annuncio di voler entrare direttamente in politica. E, ancor più, di parteggiare per il missino Gianfranco Fini nella lotta per il Campidoglio. Se martedì 23 novembre ha messo le carte in tavola, la mattina con l’intervista-manifesto a “La Stampa” e il pomeriggio con il proclama di Casalecchio, lo ha fatto a ragion veduta. In piena coerenza con la sua condizione presente di cittadino e di imprenditore. E con la sua franchezza che per una volta ha spazzato via la fitta siepe di smentite fasulle dietro la quale egli si nasconde quando prepara qualcosa di grosso. Di ciò bisogna rendere grazie a Berlusconi. Anche perché così ha mostrato di quale pasta sono fatti tutti coloro che per mesi hanno finto di non vedere la nascita del suo partito politico, lasciando solo “L’Espresso” nella sua battaglia di verità, e miserabilmente insinuando che questa era solo una bega di potere fra gruppi editoriali.

 

Berlusconi, con buona pace di chi soltanto adesso osa criticarlo, dimostra di non essere uno sciocco anche perché interpreta in modo discutibile, ma non cervellotico, la lezione del 21 novembre. C’è una logica nella sua follia.

 

Anche “L’Espresso” sta impazzendo? Ma no. Con i candidati di sinistra in testa in tutte le principali città, Berlusconi ha anzitutto preso atto del fatto che nell’area di centro si aggirano solo delle mezze calzette: «Oggi non si vedono sulla scena politica dei protagonisti così autorevoli da diventare un punto di aggregazione e riferimento per quella vera maggioranza che c’è nel Paese».

 

In secondo luogo, Berlusconi ha capito che il sistema elettorale maggioritario uninominale porta inevitabilmente allo scontro fra una destra e una sinistra, sia pure entrambe protese alla conquista del centro. E così, mentre tutti i suoi interlocutori - da Segni a Montanelli, da Urbani a Vertone - ancora marciavano al canto di “Né con la Lega né col Pds”, egli si è esibito in una prima rivalutazione dei lumbard («Molti valori della Lega non possono non essere condivisi»), e ha detto chiaro e tondo che per battere la sinistra tutto fa brodo. Le sue teste d’uovo cercavano di acchiappare il fantasma degli opposti estremismi? Berlusconi, al grido di “Pas d’ennemis à droite!”, si è subito mosso per acchiappare voti.

 

Dolorosamente comico
Per questo, con calcolato azzardo, ha dichiarato il proprio appoggio al neofascista aspirante sindaco di Roma. Sapeva che nell’area che gli interessa, quella del centro-destra, non avrebbe scandalizzato quasi nessuno: anche senza l’aiuto della Fininvest, Fini aveva già raccolto un impressionante 36 per cento di voti che certo tutti fascisti non erano. Berlusconi sapeva anche che molti, nell’area del centro-sinistra, si sarebbero giustamente ribellati; che alcune delle sue redazioni sarebbero scese in sciopero; che alcuni gruppi avrebbero perfino lanciato proposte di boicottaggio dei suoi prodotti; che ne sarebbe nato un caso internazionale. Sapeva, ma ha corso il rischio. Perché questo gli sembrava il male minore. E soprattutto perché era spinto da impulsi irresistibili. Decifrando i quali non soltanto si fa luce su una vicenda umana, professionale e politica che proprio per la sua unicità merita rispetto; ma si capisce anche perché il partito di Berlusconi, pur muovendo da intuizioni non peregrine, non può non essere rifiutato da quegli stessi ai quali si rivolge.

 

Il punto numero uno è l’autentica ossessione che per Berlusconi la sinistra costituisce. Egli odia la sinistra, anche se molti uomini di sinistra trovano conveniente non accorgersene, e sciamano allegri davanti alle sue telecamere. È un odio così viscerale, così assoluto da risultare dolorosamente comico. Mercoledì 24 novembre Berlusconi ha scritto a tutti i giornali: «Questa alleanza delle sinistre si presenta come una sfida al buon senso e una provocazione verso l’economia liberale e il mercato». Con i Cacciari, i Rutelli, i Sansa a rilanciare i piani quinquennali di Stalin? Purtroppo Berlusconi vede comunisti dappertutto, e a questa allucinazione permanente sacrifica anche i propri interessi di imprenditore. Con Michele Santoro può trattare, per farselo amico; ma assumerlo, e a dargli carta bianca, mai.

 

Dall’incubo del Pci ieri, del Pds oggi nasce la spinta incoercibile a fare politica, in forme quando si può occulte. Si sa tutto della totale identificazione fra Berlusconi e Bettino Craxi. Si sa del suo vecchio rapporto con Licio Gelli, da lui stesso di recente rievocato (“L’Espresso” n. 47) in un’aula di giustizia. Volendo, si può ricamare all’infinito sulle consonanze fra le dichiarazioni di Berlusconi a “La Stampa” e la storica intervista di Gelli a Maurizio Costanzo (5 ottobre 1980). C’è la stessa ambigua polemica contro i partiti, lo stesso appello alla gente comune, la stessa dolciastra retorica dei valori. C’è lo stesso vizio di parlarsi addosso («Avendo sempre agito nell’osservanza di certi principi etici di base sono riuscito ad accattivarmi la stima e la simpatia di molti», diceva Gelli; «Sono in molti a chiedere un mio impegno»; «Sarei costretto a mettere in campo la fiducia che molta gente ha verso di me», si pavoneggia Berlusconi). C’è, soprattutto, la stessa aspirazione al ruolo del grande manovratore: Berlusconi sogna di «prendere i responsabili delle forze politiche, di metterli in una stanza e di non farli uscire finché non hanno raggiunto un accordo»; Gelli, più sobriamente, asseriva di voler fare «il burattinaio».

 

Megalomane
Ma né la fobia per la sinistra né il gusto dell’intrallazzo politico condurrebbero Berlusconi alla creazione di un simil-partito, con gesti spericolati come l’appoggio a Fini, se non entrasse in gioco un fattore squisitamente personale: la sua megalomania. Egli ritiene davvero di poter essere oggi il salvatore della patria; così come dichiara, senza tracce di imbarazzo, di essere stato il vero artefice della crescita economica italiana negli anni Ottanta. Sa accettarsi, e proporsi agli altri, solo come lo stravincitore di sfide impossibili. Fa di se stesso un mito, con struggente candore. A “La Stampa” si è dipinto come un veggente («Centrati in pieno» i risultati delle elezioni), come un superuomo («Eroica» la decisione di lasciare la Fininvest), come Gesù Cristo («Amaro calice» il darsi full-time alla politica). Nel proclama di Casalecchio si è atteggiato da uomo della provvidenza: «Non potrei lasciar andare il paese in una direzione sbagliata...». A volte usa accenti lirici: nella lettera ai giornali, il presunto pluralismo delle sue testate è diventato «polifonia». O parla in terza persona: «Secondo un sondaggio, sarebbero circa il 43 per cento gli italiani che si fiderebbero di Berlusconi». L’ipertrofia dell’ego peggiora col passare del tempo. E stride con la dozzinalità delle idee professate, con tutto quel balbettare di liberismi e statalismi e liberaldemocrazie, con la desolante banalità dei tanto reclamizzati valori (mercato, impresa, famiglia, buon senso: chi può non essere d’accordo?).

 

Eppure, nemmeno lo smisurato senso di sé basta a spiegare il Berlusconi tutto politico che si sta delineando. Per un semplicissimo motivo. Che questa scelta per Berlusconi ha un costo inevitabile: l’uscita dalla Fininvest. Come capoazienda e, forse, anche come proprietario. È lui stesso a riconoscerlo: «Come editore, io non posso diventare un soggetto politico»; se invece lo diventa, deve «lasciare ad altri la guida di questo gruppo». E si tratta di un costo altissimo perché per l’imprenditore Berlusconi la Fininvest è tutto. Lasciarla per lui equivale a chiudere una carriera imprenditoriale di quarant’anni.

 

Poiché l’uomo, ancora una volta, non è uno sciocco, occorre chiedersi perché, sull’altare di un’avventura politica dall’esito sommamente incerto, si prepari a compiere un sacrificio di questa portata. Sfortunatamente, la risposta possibile è una sola: Berlusconi è disposto ad abbandonare la Fininvest perché teme, o addirittura sa, di doverlo fare in tutti i casi. Ma per motivi di ordine non politico, bensì aziendale. È qui, nei segreti della crisi Fininvest, che quasi certamente matura la brusca accelerazione del progetto politico di Berlusconi. L’ingresso in politica può essere, subito, il modo più brillante di mascherare l’insuccesso imprenditoriale: se poi per caso la nuova scommessa viene vinta, quella crisi aziendale ne trarrà sollievo.

 

Questo articolo con il titolo originale “Meglio Fini che Fininvest” è stato pubblicato sull’Espresso il 5 dicembre 1993

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