Con 759 voti il secondo presidente più votato della storia è richiamato a curare il virus dell’immobilismo politico. Perché nessuno più di lui sa che questa elezione al Colle non può essere considerata un anestetico per addormentare e congelare

Alle 20.40 Sergio Mattarella conclude il Romanzo Quirinale 2022 con 759 voti, un record, il secondo presidente più votato in 76 anni di storia dopo Sandro Pertini. Il Richiamo è infine arrivato, nel corridoio dei Passi perduti di Montecitorio che sembrava un cluster affollato e confuso, con deputati e senatori a bivaccare nel caos, e si trasforma in questo sabato 29 gennaio in un hub vaccinale, per curare il virus dell'inconcludenza politica e dell’immobilismo che in questi sei giorni ha messo a rischio la tenuta del corpo democratico. In un clima stralunato, con le tribune semi-deserte per le misure anti-covid, lo specchio del vuoto in cui si sono svolte le piccole manovre di questa settimana, in queste giornate di sapore amaro per la democrazia.

 

Una seconda dose di Sergio Mattarella per il Paese. Il presidente uscente ha cercato in tutti i modi di esorcizzare un esito drammatico, ma il secondo mandato è stato reso necessario dall'impasse del sistema politico impazzito, con i nomi bruciati a raffica, i candidati estratti a sorte come nel gioco del lotto che fino all'Ottocento si svolgeva nello stesso palazzo in cui si elegge il capo dello Stato, le leadership sull'orlo della crisi di nervi e la serata di ieri in cui si è avvertita la vertigine davanti al precipizio. Una servitrice dello Stato, Elisabetta Belloni, dirigente del Dis che coordina i servizi segreti, candidata dalla triade Salvini- Meloni- Conte che per qualche interminabile minuto hanno minacciato di portarla al voto dell'aula senza accordo con tutti gli altri partiti. Un rischio letale. La caricatura della donna al Quirinale. Mentre nell'aula avanzava, implacabile, la mano invisibile del partito di Mattarella: trasversale, con qualche deputato disposto a rivendicarne l'organizzazione (Stefano Ceccanti e Matteo Orfini del Pd) e tantissimi parlamentari anonimi, ignoti, che scrivevano il cognome del presidente sulla scheda come guidati da un'ispirazione misteriosa. Prima 16 voti, poi 39, 125, 166, 336, infine 387 voti questa mattina, alla settima votazione, mentre i leader a turno facevano la fila per assicurargli il suffragio. Sono stato i parlamentari qualunque a votare per lui, prima della sfilata tardiva dei capi prigionieri da giorni di mosca cieca, dispersi nel labirinto delle loro intenzioni.

 

Uno di loro, in particolare, ha provato a giocare da kingmaker, Matteo Salvini. Voleva conquistare il Quirinale per un nome del centrodestra. Il risultato è un centrodestra a pezzi che non esiste più. Un cratere di odi trattenuti da mesi e esplosi senza ritegno. Un fuggi fuggi generale. Si rimette in proprio Forza Italia, offesa dal trattamento riservato al leader malato Silvio Berlusconi, i centristi vanno verso Matteo Renzi, sul versante opposto Giorgia Meloni inserisce l'alleato tra i gattopardi che non vogliono cambiare nulla. Un risultato catastrofico per il Capitano che si ritrova tra le macerie della sua coalizione e tra le ironie perfino dei fedelissimi del partito.

 

Sul versante opposto, Enrico Letta, il Letta Mannaro, porta a casa il punto per il Pd, con un catenaccio che avrebbe fatto felice il sommo Gianni Brera, il giornalista teorico e vate della tattica calcistica che prevede: primo, non prenderle. Non era facile per un partito crollato alle elezioni del 2018 rieleggere un presidente che è stato tra i fondatori del Pd. Il Letta Mannaro si presenta alle quattro del pomeriggio in conferenza stampa e mostra la sua soddisfazione: «Per me l'ideale era un nuovo settennato di Mattarella e Draghi fino al 2023, meglio di un'ascesa di Draghi al Quirinale», rivela. Una posizione identica a quella di altri leader, ma che Letta ha avuto la prudenza di non sbandierare prima del risultato. Con la tattica difensiva e poco visibile ha portato a casa il punteggio massimo. E al momento del raggiungimento del quorum ha esultato in aula come allo stadio. Più di sollievo per lo scampato pericolo che di vittoria, di un naufragio sopravvissuto alle maree.

 

Dell'alleato Giuseppe Conte Letta incassa con stile il «cortocircuito mediatico» sulla candidatura Belloni che è stato in realtà qualcosa di più, la tentazione di tornare indietro ai gialloverdi con Salvini. «L'obiettivo di Conte era evitare che Draghi andasse al Quirinale», spiega uno dei capi del Movimento 5 Stelle. Obiettivo raggiunto, ma a prezzo di una incomunicabilità totale con Luigi Di Maio.

 

In mezzo c'è il premier Mario Draghi, che ha visto la sua maggioranza traballare e quasi dissolversi nella giornata di ieri, con il centrodestra a votare la presidente del Senato Elisabetta Casellati e l'altra metà dei partiti a disertare lo scrutinio, fino alla crisi virtuale aperta in serata con l'idea di votare Elisabetta Belloni e la richiesta di elezioni anticipate. Il governo è ora blindato, ma sarebbe meglio dire congelato, ed è stato lo stesso Draghi a chiedere a Mattarella di restare. Ma da molti mesi, su molti dossier (fisco, pensioni, giustizia, concorrenza) il governo è bloccato o ha rinviato al dopo elezioni presidenziali. E ora che tutte le questioni andranno affrontate, Draghi rischia di ritrovarsi con una maggioranza più divisa e con un carisma personale finito sotto l'attacco dei segretari di partito che dovrebbero sostenerlo.

 

Un'elezione che arriva in una situazione completamente diversa rispetto a sette anni fa, in un altro sabato di fine gennaio. Nel 2015 c'era un leader egemone, Matteo Renzi, e un presidente da scoprire per gli italiani estranei al Palazzo. Oggi Mattarella è l'uomo politico più amato, come hanno dimostrato in questi mesi gli applausi raccolti ovunque. Ma è sempre di più il presidente solo «en la tormenta», nella tempesta, come lo aveva chiamato il quotidiano El Pais. Il presidente meno demiurgo di tutti è costretto dagli eventi a restare al Quirinale perché all'emergenza sanitaria e economico-sociale si è aggiunta quella politica e istituzionale di un sistema inceppato, incapace di trovare una direzione, un orizzonte. La democrazia ferita, con la politica che si condanna all’inutilità.

 

Nello straordinario libro di Javier Cercas, “Anatomia di un istante”, ambientato nel Parlamento spagnolo nei giorni del tentato golpe del 1981, si cita di Hans Magnus Enzensberg un saggio che celebrava la nascita di una nuova classe di eroi, gli eroi della ritirata. «Le dittature del Ventesimo secolo hanno portato alla luce l'eroe moderno, che è l'eroe della rinuncia… l'eroe della ritirata non è soltanto un eroe politico, ma è anche un eroe morale». Un eroe riluttante, che non vuole conquistare ma convincere, includere, che conosce il limite del potere. Mi è venuto in mente questa sera a proposito del secondo mandato di Sergio Mattarella.

 

Il presidente che non voleva diventare un monarca repubblicano, quanto di più lontano dalle leadership pseudo-virili, nevrotiche e narcististiche di questi tempi, che rigettava l’emergenza e predica la normalità, è stato chiamato a cambiare i progetti di vita a ottant'anni, per aiutare il sistema politico immerso in una crisi di cui non si riesce a scorgere la fine, per evitare «pericolosi salti nel buio». È il carisma mite e inflessibile di Sergio Mattarella. Nessuno più di lui, per cultura politica, il cattolicesimo democratico che fu di Aldo Moro e di David Sassoli, per sensibilità e conoscenza in profondità del Paese, è consapevole della fragilità di questa situazione. Il Parlamento eletto sull’onda populista è stato il più impaurito è paralizzato, lascia irrisolta la questione del mancato ricambio di classe dirigente, l’assenza di rinnovamento dell’establishment, di poteri deboli e abbarbicati per questo alla sua autorevolezza. Nessuno più di Mattarella sa che questo voto che proietta l’Italia verso gli anni Trenta del secolo non può essere considerato un anestetico per addormentare e congelare.