A cento giorni dalla vittoria elettorale - il fatto politico dell’anno che si chiude - la premier sfodera la sua ambizione. Nega di voler «sopravvivere», ma sogna l’elezione diretta al Quirinale

«Se riesco, mattoncino su mattoncino, a fare quello in cui credo, sto qui anche cento anni». Sedici anni dopo, la Giorgia Meloni che a 29 anni, neo vicepresidente della Camera, aveva detto nel 2006 queste parole in un'intervista sul Giornale, fa capolino il 29 dicembre 2022 nella prima conferenza stampa di fine anno della Giorgia Meloni quarantacinquenne e inquilina di Palazzo Chigi. «Il mio atteggiamento verso questa esperienza di governo non è quello di sopravvivere», dice adesso la presidente del Consiglio, assicurando andreottianamente che non intende tirare a campare. Mattoncino su mattoncino, potrebbe restare un secolo.

A sessantasette giorni dal giuramento al Quirinale, a quasi cento dalla vittoria del 25 settembre, Meloni dismette così i panni della vincitrice timorosa che aveva indossato il 26 settembre e battezza infine se stessa come premier: «Una conferenza stampa di inizio mandato, più che di fine anno» dice, in effetti, prima della full immersion di tre ore e quarantatré domande, record forse nella storia repubblicana.

Stupidario
2022, Giorgia Meloni di lotta e di governo
29/12/2022

Mette finalmente il piede a terra. Srotola la sua ambizione - quella che urlava in campagna elettorale. Difende i, pochi, passi concreti del suo governo e i suoi ministri («tutto quello che abbiamo fatto è di destra, altrimenti non lo avremmo fatto»). Prende le parti persino di Giuseppe Valditara, arrampicandosi sugli specchi per puntellare il di lui sproloquio sulla scuola «sessantottina», avrebbe fatto altrettanto con Gennaro Sangiuliano, il ministro della cultura avversario della lingua non autarchica, se glielo avessero chiesto.

Sventola tutte le bandiere identitarie di cui può ammantarsi: la guerra alle Ong e ai rave party, l'ergastolo ostativo, il contenimento delle intercettazioni, il vedo-non vedo sull'area condoni («non ci sono condoni»), la sacralità della prima casa («non è pignorabile, non è tassabile»), la difesa orgogliosa e senza chiaroscuri della storia dell'Msi e del diritto di Ignazio La Russa a celebrarla. E, con l'identità, tutte le mezze verità che può raccontare: a partire da quella piuttosto inedita per cui la politica è per lei un «passaggio transitorio», nonostante vi indugi da una vita intera, mentre il suo vero mestiere sarebbe quello di giornalista cui prima o poi tornerà.

Centottanta minuti non da mattatrice, anzi abbastanza piatti, a tratti estenuanti, tipo maratona. Piuttosto diversi dai due mesi di governo appena trascorsi, pieni di contraddizioni, smentite, papocchi, traboccanti di alti e di bassi, di molti proclami e di moltissime marce indietro - basti pensare alla norma sui Pos - e assai animati del variopinto mondo di governo che si aggira attorno alla neopremier. Ma quello è appunto il circo Meloni. Qui invece si esprime la premier in purezza: il suo mondo, il suo orizzonte.

Per certi versi, sorpresa, a tendenza renziana. L'ex sindaco di Firenze e l'ex segretaria dei giovani di An hanno alcune cose in comune: l'età, la determinazione, la capacità di leadership, i criteri di selezione del cerchio magico e dei fedelissimi in genere.

Ma si vede anche altro. È ad esempio renziano - oltreché berlusconiano - lo sguardo con cui abbraccia il mondo produttivo, dalle imprese alle partite Iva, carezzato con precisione chirurgica fin dal discorso di insediamento quando spiegò che non avrebbe «disturbato chi produce» e, adesso, fin quanto possibile viste le risorse, oggetto di attenzioni nella manovra, dalla flat tax al taglio del cuneo fiscale fino alla decontribuzione per i neoassunti: «Lo stato non crea lavoro, ma può favorire chi lo fa. Possiamo togliere cavilli, vincoli che secondo noi controproducenti».

È renziana soprattutto l'ambizione a cambiare la Costituzione, volo di Icaro nel quale l'ex sindaco di Firenze finì per bruciarsi le ali e il futuro a Palazzo Chigi: Meloni annuncia che il presidenzialismo è vicino - ne aveva parlato pochissimo, sin qui- e dice di più: è un suo obiettivo irrinunciabile. «Vorrei che fosse una mia eredità», arriva addirittura a spiegare, lasciando indeterminata la formula finale e il percorso per arrivarci («partiamo dal semipresidenzialismo alla francese, ma ci potremo anche inventare qualcosa»). È renziano il timbro dell'ambizione in genere, che Meloni finalmente sfodera senza timori. Del resto in estate, nel bel mezzo della campagna elettorale, proprio quando era spuntato per la prima volta il tema del presidenzialismo Meloni chiarì, in privato, il livello delle proprie ambizioni: «Tra cinque anni avrò giusto cinquant'anni, potrò essere comunque presidente della Repubblica», anche senza abbassare l'età minima per l'elezione prevista attualmente.

Si capisce dunque che Meloni non tema veramente il confronto con Mario Draghi, cui è succeduta. «Non mi è mai piaciuto vincere facile, mi stimolano le persone autorevoli, la trovo una sfida affascinante», dice rivendicando il buon funzionamento della «staffetta» con l'ex presidente della Bce per quel che riguarda il Pnrr per il quale ora si apre la fase più difficile, quella dell'attuazione dei progetti. Tempi più lunghi di quelli sincopati che hanno accompagnato la nascita del governo e la manovra finanziaria fatta in fretta e furia.

Adesso Meloni, lasciato alle spalle il primo esame sulla manovra appena conclusa, se non vuole finire a «sopravvivere», dovrà cominciare a mettere a terra un'idea strategica che finora è mancata. L'aiutano molti elementi esterni, primo fra tutti una generale debolezza del fronte politico sia della maggioranza (Lega e Forza Italia) che dell'opposizione (a partire dal Pd). L'aiuta, paradossalmente, anche la difficile situazione economica, l'aiuta la guerra. Un contesto emergenziale dove sapersi muovere con cautela potrebbe essere la dote sufficiente per garantirsi anni di placido governo. Sempre che non arrivi l'ambizione di una riforma costituzionale a scombinare tutto.