Quando poi si riandrà indietro con la memoria a questi giorni, brillerà finalmente come scintillante esempio di un’Era senza svolte e senza entusiasmi Francesco Boccia: 52 anni, responsabile enti locali del Pd, il vero generale sul campo del lettismo, una specie di vicesegretario ombra agli affari correnti, quello addetto a mettere le mani dentro le sabbie umide delle faccende di partito - non seduto all’asciutto social di un posto al sole, non sgambettante nel mare aperto della sedizione. Un ruolo in sé mediocre, ma che spicca nell’assenza totale di quasi tutto il resto. Non a caso taluni zoologi democratici lo chiamano il “tardigrado”: capace di reggere qualsiasi temperatura, praticamente indifferente al clima politico e quindi impossibile da uccidere, Boccia è come quell’animale in grado di sopravvivere, insieme a pochi altri, anche all’apocalisse (non è un’iperbole: chiamato anche «orso d’acqua», può resistere ai raggi Uv come all’ibernazione e stare trent’anni senza cibo né acqua). Perfetto interprete di questa Era, appunto.
L’altra settimana, durante la direzione nazionale di martedì 17, si è erto a garante del campo largo e cioè dell’alleanza con i Cinque Stelle, pozzo nel quale Enrico Letta lo condannò a nuotare un minuto dopo la sua ascesa al trono del Nazareno, nel marzo 2021. Era del resto l’uomo giusto per quel ruolo: amico da sempre del segretario dem, sbarcato giovanissimo all’Arel di Beniamino Andreatta, consigliere di Letta al ministero dell’Industria già alla fine degli anni Novanta ai tempi dei governi D’Alema e Amato, Boccia nell’era del governo giallorosa da ministro degli Affari Regionali è diventato anche il più contiano tra i democratici, finendo per essere sotto pandemia il più vicino al premier dei Dpcm. Con costanza, ma anche con qualche slancio: ad esempio la volta in cui formulò l’ardito progetto degli «assistenti civici contro il covid», vagheggiava cioè di assumere sessantamila persone per vigilare su distanziamento e mascherine (praticamente un reddito di cittadinanza pandemico: la proposta durò mezza giornata).
Ebbene adesso, tra i distinguo di Conte e il crollo dei M5S, è abbastanza chiaro che quest’alleanza coi grillini, se pure c’è mai stata, è già finita per la consunzione anzitempo di una delle due parti in gioco. Basti dire che, con i sondaggi che li danno a livello nazionale tra il 10 e il 13 per cento, i Cinque Stelle hanno alle amministrative del 12 giugno un tasso di presenza ufficiale praticamente dimezzato: nessun candidato sindaco nei 26 capoluoghi in cui si va al voto, liste M5S presenti solo in 64 comuni su 978.
Solo un anno fa, nel 2021, all’inizio della leadership di Conte, le liste erano 103; dieci anni fa, all’alba dell’ascesa grillina, quando il Movimento non era ancora entrato in parlamento, erano 101. Un prosciugamento che corrisponde a un calo generale di presa sui territori, come testimonia anche il dimezzamento dei militanti e il crollo dei meet up. E questo senza considerare il complicarsi del ruolo di Conte, sempre più debole come capo dei grillini (il 7 giugno ci sarà il nuovo pronunciamento del Tribunale sulla relativa querelle), sempre meno accomodante nei confronti di un Letta che tanto l’ha voluto alleato, quanto adesso è pronto diffidarne.
È altrettanto vero tuttavia che quell’alleanza resta imprescindibile. Deve reggere, anche nel caso in cui non potesse farlo. Il livello di aspettative del resto non è altissimo, basta poco: il centrodestra governa in 20 capoluoghi su 26, al Nazareno danno già per certamente persi due dei quattro capoluoghi di regione, Genova e Palermo - dove il candidato progressista Franco Miceli è, dicono, rassegnato alla sconfitta; in segreteria si fanno bastare un pareggio o anche un mezzo pareggio, con L’Aquila di Stefania Pezzopane e, soprattutto, la Catanzaro di Nicola Fiorita dove la partita si è riaperta almeno per il primo turno grazie alle divisioni del centrodestra (Lega e Fi hanno un candidato che ha la tessera del Pd in tasca, per dire).
Ed ecco qui appunto scendere in campo Boccia, il luogotenente delle missioni non impossibili, ma parecchio stancanti: l’addetto ai compiti ingrati. L’uomo a cui la storia, ma soprattutto il carattere, hanno dato in mano lo scotch per tenere insieme alleanze che non avrebbero altro collante. Nessun ideologismo, molto senso pratico. Pronto a chiarire, con grande pazienza, anche la velina di partito: i Cinque Stelle sono sì alleati con il Pd nel 70 per cento dei comuni, ma questo non vuol dire lo siano in 684 centri (sui 978 in cui si vota), bensì che la base di calcolo sono i 143 in cui c’è il doppio turno, cioè le più grandi (gratta gratta, al di fuori dell’ufficialità, viene fuori che in pratica quel 70 per cento ha come base di calcolo i 26 capoluoghi: ergo, l’alleanza Pd-grillini trionfa in ben 18 comuni su 978). Pronto a dire - carezzina ai Cinque Stelle - persino che la presentazione della lista non è poi un dato così rilevante: al giorno d’oggi è roba che fanno solo Pd e Fratelli d’Italia, usa poco. Spiegazioni ordinate, un ragionevole equilibrio tra realtà e propaganda, nessun effetto speciale. Un facci sognare ragionieristico, che al massimo può essere declinato con un «difendo le ragioni dell’alleanza» anche se «è faticoso».
Faticoso di certo. Lo sa benissimo lui e coloro che in questi mesi ha convinto ad allearsi, a conciliarsi, a ingoiare rospi. Prevedibile come una camomilla, ossessionante come uno stalker, al motto secondo cui «le peggiori sconfitte sono le battaglie che non si fanno», Boccia quando ti individua non ti molla più. Tampina con delicatezza, insiste con diplomazia, dice la parola che aspettavi da anni. E anche questa tornata, come la scorsa del 2021, è infatti costellata di alleanze tra nolenti che alla fine si sono fatte, di candidati che volevano ritirarsi ma sono più o meno rimasti, di rotture clamorose diffuse col silenziatore, di caos prudentemente circondati di cuscinetti. Ecco: quello è Boccia. Dalla Puglia alla Calabria, da Molfetta a Catanzaro, ovunque lui vada lo schema è quello del sicario gentile. Tu gli dici di no, e lui risponde parliamone. Gli scrivi una sequela di insulti, e lui telefona e ti dà ragione. Lo asfalti, e alla fine della telefonata ti domanda: possiamo risentirci domani? Il tempo di domandarsi «cosa vorrà ancora», ed ha già vinto. Non che vinca spesso (a Barletta, per esempio, ha vinto il caos) ma anche la resistenza è una virtù, anche lo sfinimento è una linea politica: il coraggio è sopravvalutato, il carisma forse pure. Quale miglior interprete del lettismo attivo ed operante?
Non a caso Letta, attraverso di lui, proprio in periodo di campagna elettorale, è riuscito a commissariare la terra di Michele Emiliano - non era scontato. Un tassello importante nel lungo lavoro che il segretario dem sta facendo, attraverso i commissari (Boccia in Puglia, Borghi in Sardegna, Losacco nelle Marche) o anche attraverso i fedelissimi di fedelissimi (Raffaele La Regina in Basilicata, già assistente di Provenzano al ministero del Sud), o ancora attraverso casi che considera un modello (quello di Nicola Irto in Calabria, recuperato a segretario regionale dopo il pasticcio delle amministrative 2021) per riportare sotto controllo il partito e soprattutto il Sud: una terra che in vista del 2023 è pure, tra i Cinque Stelle che dimezzano i voti e Giorgia Meloni che li raddoppia, il punto chiave in cui si giocano le elezioni politiche.
In Puglia da commissario del Pd Boccia è chiamato anzitutto a oliare il meccanismo dei rapporti con Emiliano, di cui fu assessore a Bari e con il quale ha sempre coltivato un ottimo rapporto - pur nel progressivo allontanamento, le due cose nel mondo di Boccia si tengono assieme - ma che è un governatore sempre più autonomo, ormai con un partito suo, ed esperto in alleanze del genere «vinci inglobando nel centrosinistra anche il centrodestra», come quella che ha visto a fine 2021 l’ingresso nella sua giunta del forzista Rocco Palese, tra molte polemiche. Non dovesse riuscire ad arrivare a fare un congresso, sarà comunque Boccia a gestire per il territorio le liste alle politiche, che sono poi il vero pallino di chiunque da oggi fino al giorno del voto.
In un sud dominato dai notabilati locali, parecchio sordi alla voce di Roma, un passaggio simile a quello pugliese Letta voleva farlo in Campania, altra regione guidata da un governatore autonomo e “pesante”, Vincenzo De Luca, da avviare a normalizzazione. Il governatore campano pareva convinto, aveva lasciato si facesse spazio, eppure l’operazione di eleggere Stefano Graziano a segretario regionale dem non è (ancora?) andata in porto, impantanata ufficialmente per iniziativa della sinistra di Orlando e Provenzano, di fatto per i veti incrociati di tutte le correnti del Pd: ci sono in regione troppi aspiranti candidati alle politiche, più di uno per provincia, e le liste alla fine si preferisce deciderle a Roma, meglio ancora senza avere tra i piedi un segretario regionale legittimato dal territorio.
Tutte manovre che servono a Letta per puntellarsi nel partito in vista del momento zero: quando si faranno le liste, giorno nel quale tutte le correnti ora apparentemente fiaccate o dissolte risorgeranno di botto, nella Direzione nazionale che è rimasta quella del 2018, la più lottizzata di sempre. Una situazione, come si vede, entusiasmante. Ma ogni granello è per Letta necessario - compreso il puntellamento dell’alleanza coi Cinque Stelle - per presentare agli elettori già alle amministrative un piatto vagamente appetibile, anche per le politiche, in un’epoca dominata dal venticello che sussurra “Meloni premier” e che non pare vincente, o eroica, per il centrosinistra. Un’epoca che pare disegnata a pennello per quelli come Boccia: è sempre l’ora dei tardigradi.