Michele Santoro. Luigi De Magistris. Roberto Speranza. Maurizio Landini. Goffredo Bettini. Giuseppe Conte. Sono i nomi tornati ala ribalta nelle ultime settimane. Fuori e dentro il Pd è partita la gara a riempire un vuoto di leadership e progetti

Non c’è pace a sinistra: su Ucraina e lavoro si accende la nuova battaglia elettorale

In pratica è solo l’inizio. L’olimpiade del progressismo, incarnata una volta nel grado di distanza dall’elmetto lettiano vale a dire sull’asse pace-guerra, un’altra nella disfida sui salari vale a dire lungo l’asse capitale-lavoro, è appena cominciata. E da una parte lo spettro di una lista pacifista in via di formazione dopo che Michele Santoro ha raccolto in una serata-evento, al teatro Ghione a Roma, i neneisti di «né con la Nato, né con Putin», detti sulla rete «pacifinti» per esasperazione demo-borghese, e pericolosamente somiglianti a una riedizione di quella lista di sinistra che nel 2018 poi non si fece ma che tutt’ora viene spaventosamente evocata come «spirito del Brancaccio». E dall’altra il leader dei Cinque Stelle Giuseppe Conte, sempre meno potente ma sempre più lesto, scavallati i giorni spesi a dire nì all’aumento delle spese militari adesso chiede a Draghi di condannare in Parlamento (dove lui non ha voluto farsi eleggere) l’escalation militare, subito dopo aver minacciato di incatenarsi davanti al Parlamento (dove non ha voluto farsi eleggere) se non verranno approvati i salari minimi, bandiera grillina. E dall’altra ancora è Andrea Orlando, ministro del Lavoro, a battagliare con Confindustria sul tema dei rinnovi contrattuali, sempre per rafforzare sul lato sinistro un partito che della difesa dei lavoratori avrebbe (avuto) uno dei suoi ancoraggi chiave.

 

Si diceva quindi che l’olimpiade è appena cominciata. È infatti proprio a sinistra che, in questa manciata di mesi che ci separano dalla fine della legislatura, si giocherà una delle battaglie decisive per determinare i prossimi vincitori e i prossimi perdenti, posto che nel centrosinistra il Pd di Enrico Letta da solo non basta, e che i Cinque Stelle sono diventati troppo poco consistenti, in termini di voti oltreché di posizionamento, per fare da soli la differenza.

 

Il tutto parte da un fatto abbastanza inedito: il deserto. Mentre l’area centrista, tra i postumi del renzismo e la dissoluzione del berlusconismo, resta vivace e affollata, mai come adesso il campo della sinistra – da quella che è dentro il Pd fino a quella antidraghista di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli – è stato così sguarnito, confuso, malamente presidiato, esposto all’assalto degli Unni, carente sia sul fronte dell’offerta (i leader) che su quello della domanda (i voti). Basti pensare che là dove una volta era tutto un Fausto Bertinotti, tutto un Nichi Vendola, due settimane fa, al congresso di Articolo Uno, proprio mentre i pacifisti marciavano tra Perugia e Assisi, la standing ovation della sinistra che fu antirenziana è andata a Giuseppe Conte, già «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» (Nicola Zingaretti, dicembre 2019) e adesso intento ad ereditare – almeno per sgocciolamento – con il suo M5S riverniciato da «forza progressista» quel po’ di sinistra a sinistra del Pd che Roberto Speranza e i suoi rischiano di fatto di lasciargli, se gli riesce l’impresa di rientrare nel Pd.

 

Basti pensare - per dire del vuoto - che la settimana scorsa alla Camera, zitto zitto, Luigi De Magistris, ex sindaco di Napoli, reduce dal capolavoro della corsa da governatore in Calabria (un win-win: ha spaccato la sinistra ed è arrivato terzo), ha presentato con quattro deputate il primo embrione di un nuovo soggetto che vorrebbe costruire, tra Potere al Popolo e Rifondazione, per rappresentare chi «è alternativo al draghismo e all’economia di guerra» , insomma intercettare il voto antisistema e pacifista. Pure lui.

 

Un capitolo a parte merita ciò che accade nella sinistra del Pd. Dove i sussulti, che come al solito sono molti, dipendono dal grado di accordo raggiunto – oppure da raggiungere – circa gli equilibri politici e la spartizione dei posti in lista per le elezioni del 2023. In un partito dove, peraltro, Enrico Letta pare essere riuscito nell’operazione di ricomporre le correnti del partito in una maniera per lui vagamente meno incontrollabile: alla destra del partito gli interlocutori sono gli ex renziani di Base Riformista tipo Lorenzo Guerini, al centro c’è lui (e Areadem), a sinistra – l’area comunque più caotica e problematica, con Peppe Provenzano nel ruolo di quello che dovrebbe calamitare la sinistra fuori dal Pd – gli interlocutori del segretario sono Andrea Orlando e Nicola Zingaretti.

 

Era proprio questo uno dei passaggi più complessi: separare i destini del governatore del Lazio da quelli del suo – diciamo – fortissimo punto di riferimento, Goffredo Bettini. Il già demiurgo risulta in effetti al momento in autoesilio a Parigi: scrive il suo prossimo libro, dà consigli a Giuseppe Conte, progetta addirittura un ritorno in Thailandia – che lasciò nolente, sospirando che la politica lo chiamava, nel 2019, proprio quando Zingaretti divenne segretario del Pd. Ecco nel Pd mezzo debettinizzato (pessimi anche i rapporti con il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri: basti osservare da chi vengono le polemiche sul termovalorizzatore che ha annunciato di voler costruire), va più liscio chi un qualche accordo sulle politiche 2023 lo ha già stretto. Così ad esempio Dario Franceschini, che su questo genere di questioni non si fa mai trovare impreparato. Oppure anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando, che agita sì la sua vestina di sinistra sollevando la «questione salariale», ma lo fa con il sostanziale assenso di Enrico Letta: coprire il lato sinistro serve pure al segretario dem, e del resto recuperare consensi nel mondo del lavoro non sarà facile.

 

Più complicata la partita per chi sta a metà del guado, anche per assenza di una corrente. Peppe Provenzano, ad esempio, punta molto sull’ingresso di Roberto Speranza e degli altri di Articolo Uno, non potendo contare su una rete molto più vasta di quella che va dal segretario cittadino di Napoli, Marco Sarracino al segretario regionale della Basilicata Raffaele La Regina, già suo collaboratore al ministero per il Sud. Piccolo problema: i più prevedono che, dovesse entrare, Speranza non intenderebbe allargare le fila di una corrente altrui. Farebbe, diciamo, corrente a sé. Moltiplicando l’offerta a sinistra e riducendo quindi lo spazio per il vicesegretario di Letta, che va detto, non perde una palla, dalla Visione Comune di Elly Schlein all’Agorà organizzata la settimana scorsa alla sede dem del Nazareno per parlare di salari.

 

Del panorama fa ovviamente parte anche Maurizio Landini, segretario della Cgil, che Letta sta cercando in ogni modo di includere nel campo largo, un po’ per evitare che vada a rinforzare altri pezzi di sinistra, ma soprattutto perché ha chiaro che l’alleanza coi Cinque Stelle basta ogni giorno di meno per raggiungere una percentuale sensata (pure con il proporzionale) che gli possa riaprire le porte di Palazzo Chigi. Un’ambizione tipica degli ex premier, una specie di condanna che non ha risparmiato neanche lui.

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