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Politica
giugno, 2022

Tutti i segni che mostrano come il governo di Mario Draghi sia alle battute finali

I giochi dei gruppi centristi, il caos del Pnrr, le interviste inaspettate, le crepe della Rai. Draghi va a Kiev mentre a Roma, dopo l’esito del voto, la maggioranza si sbrindella. E il destino dell’esecutivo è quello di barcamenarsi

I segni della fine, come nella canzone di Max Manfredi, sono lì da un pezzo. C’erano già prima del voto nelle città, figurarsi dopo - con i Salvini e i Conte sconfitti a lamentare che «è tutta colpa di Draghi». Mentre tra un viaggio in Israele e un altro a Kiev Mario Draghi cerca di trovare soddisfazione in un ruolo non decentrato sullo scenario internazionale, la sua maggioranza somiglia infatti sempre di più a quel pezzo del cantautore genovese amato da De André, nel quale si elencano i «segni della fine».

 

Il primo è inequivocabile ed ha persino un nome: Gaetano Quagliariello, un uomo, una garanzia. Puntualissimo, il senatore centrista come in ogni finale si costruisce un ruolo – ricordiamo quello per “l’agenda Monti 2013”, quando gorgheggiava che l’allora premier poteva essere «il federatore di un mondo». Stavolta ha fondato, con Giovanni Toti, una sigla che aspira a farsi gruppo parlamentare al Senato: insomma, ecco i responsabili pronti al sostegno del governo, categoria immancabile, specie in momenti così. La federazione, che per ora a Palazzo Madama è una mera componente del gruppo misto, si chiama Italia al centro, cioè Iac, sigla che nei documenti ufficiali ha sostituito il precedente Iec, acronimo di Idea e Cambiamo. (La dicitura completa di Iac sembra una formula chimica: I-C-EU-Ndc (Nc), laddove Nc sta per Noi Campani di Sandra Lonardo, con il che s’è detto tutto). È importante segnalare che, sotto le insegne di questo Iac, confezionato anche allo scopo di tornare utile ad ogni ammanco di maggioranza, già più di un mese fa Quagliariello e Toti si sono presentati - e, soprattutto, sono stati ricevuti - a Palazzo Chigi da Mario Draghi. Era il 23 maggio, trent’anni dall’assassinio di Falcone. «L’incontro è stata l’occasione per un confronto sulla situazione politica e parlamentare», recita la nota ufficiale. Confronto proficuo: tre giorni dopo, la commissione Industria del Senato ha chiuso, dopo quasi sei mesi di palude, l’esame della legge sulla Concorrenza (decisivo, ovviamente, l’apporto di quelli di Iac: Mollame, Biasotti, Rossi).

Non c’è mica solo Quagliariello. Tra i segni della fine c’è farsi bastare un solo voto di scarto, come nella riforma del catasto, alla faccia della (fu) maggioranza di unità nazionale che doveva cambiare il volto all’Italia; oppure la conferenza stampa del sottosegretario alla presidenza Franco Gabrielli a mettere una pezza sul pasticcio della pubblicazione dei nomi dei presunti filo-putinani contenuti nel bollettino dei servizi segreti. Tra i segni c’è, sempre, l’agitarsi fuori misura di un qualche grand commis di solito assai più riservato: in questo caso s’è vista, a partire da aprile, l’esondazione di Roberto Garofoli, sottosegretario alla Presidenza, via via sempre più presente negli articoli e nei retroscena, non solo per l’aggiornamento frenetico sul numero dei provvedimenti attuativi (siamo a 1.101) o lo stato di avanzamento del Pnrr, e addirittura intervistato, da Repubblica, per la prima volta dopo 445 giorni di governo.

 

Anche sul Piano di ripresa e resilienza, che peraltro ha preso tutt’altro segno, viste le emergenze prodotte dalla guerra in Ucraina, l’atteggiamento appare mutato. Al di là dell’elencazione dei cosiddetti obiettivi raggiunti - in politica i numeri assoluti possono essere i più ingannevoli di tutti - anche da Palazzo Chigi si invita a guardare l’intera faccenda con maggior disincanto: è vero che il prossimo target è portare a termine 45 scadenze entro il 30 giugno (Garofoli ne ha già assicurato il raggiungimento), ma la parte davvero importante comincia nella seconda metà del prossimo anno, cioè dopo il giugno 2023, quando l’Italia sarà chiamata a realizzare le opere, non soltanto ad approvare le norme. Lì servirà un governo forte, ma sarà dopo le elezioni politiche: orizzonte che il governo Draghi non è programmato per vedere. Un aldilà.

 

Nell’aldiqua prevalgono i segni. Un altro è nel mezzo terremoto che ha squassato le direzioni Rai. Tipico terreno da gioco per i passaggi di potere, in questo caso è arrivato a lambire la poltrona dell’ad Carlo Fuortes, scelto nemmeno un anno fa dal premier nella, solita, totale estraneità dalla politica - indispettendo in quel caso la destra, soprattutto leghista. «Un manager culturale che somiglia a Draghi, poche parole molti fatti», un «metodo Draghi prima di Draghi», erano state comunque, a luglio 2021, le cronache d’accoglienza per l’amministratore delegato della tv pubblica. Ed ecco quindi la voglia di defenestrare lui, meno di un anno dopo, significa in realtà il desiderio di defenestrare Draghi, pur non potendolo fare.

 

Perché se quello che è svanito, consumato nel giorno per giorno, è l’alone di incontestabilità che avvolgeva il premier, ciò che però resta uguale è la sua imprescindibilità: i partiti nonostante tutto non possono fare a meno di lui, né avrebbero la forza di disfarsene. E così arriviamo al passaggio chiave, della maggioranza come della canzone: «C’erano tutti i segni della fine, ma non c’era la fine».

Lo stato della coalizione di governo è caotico, c’è uno «sbrindellamento assoluto», dice un’alta fonte a Palazzo, il destino è quello di barcamenarsi. Una situazione che i risultati elettorali delle amministrative hanno peggiorato, portando uno dei due sconfitti, Giuseppe Conte, a promettere ininterrotte lamentazioni sulle scelte dell’esecutivo, prospettiva persino più terrificante che la minaccia secca di uscire dalla maggioranza - minaccia che il capo dei Cinquestelle, reso debolissimo dai risultati in picchiata del Movimento, non si sente ormai nemmeno di sventolare, con buona pace del pur atteso appuntamento alle Camere del 21 giugno, quando il Parlamento voterà sulla risoluzione in vista del Consiglio europeo. L’altro sconfitto, il leghista Matteo Salvini, minaccia invece sconquassi su quel che resta della riforma Cartabia, ma con una scelta dei tempi di dubbia efficacia: è arrivato, il leader leghista, addirittura a far baluginare uno «strappo» da consumarsi però non adesso, a scoppio ritardato: a Pontida, tra tre mesi, il tempo che ci ha messo Bernardo Bertolucci a girare “Novecento”.

 

Una maggioranza che più di così non potrebbe dirsi finita. Nessuno osa più l’assalto al cielo di parlare di grandi riforme, espressione diventata ambiziosa, obiettivo ormai fuori portata. La baracca sta in piedi, osservano da Palazzo Chigi, più grazie al principio di Archimede che altro. Galleggia grazie alla spinta che riceve dall’acqua che sposta: «È fisica, più che politica». L’intera nave era stata del resto progettata per durare fino al passaggio del Quirinale, è fuori tempo massimo da fine gennaio, e si vede: prevale la rassegnazione, quella dei viaggi in automobile dopo quattro ore di imbottigliamento sull’Autostrada del Sole. Il premier è alto nel gradimento degli italiani, più per abitudine che per innamoramento. La maggioranza e Draghi vivono come da separati in casa.

 

Il premier, impossibile non notarlo, ha scelto proprio il giorno del voto per iniziare la visita in Israele, per parlare di rifornimenti di gas e possibili mediazioni con la Russia, e lì è rimasto fino alla vigilia della partenza per Kiev, una missione che si preparava da un mese e mezzo. E lunedì scorso, mentre Conte e Salvini svolgevano le loro dolenti conferenze stampa, incontrava il premier israeliano Naftali Bennett, che gli esternava la sua massima stima e la necessità di una leadership forte per l’Europa del dopo Merkel.

 

Insomma è chiaro che Draghi cerca di recuperare terreno almeno sulla politica estera, dove inizialmente si è mosso a tentoni: abituato alle guerre finanziarie, meno a quelle combattute con bombe e missili. L’ex presidente della Bce continua a guardare la politica italiana con lo sguardo dell’entomologo: un territorio interessante ma bizzarro, alieno, stravagante. Ma anche qui molto è cambiato: la partita del Quirinale ha rotto, da entrambi i lati, qualsiasi remora, cuscinetto, qualsiasi patina di formalità. Via i salamelecchi con i quali lui prima trattava i politici, ringraziandoli ad uno ad uno nei discorsi in Parlamento (via, per converso, anche gli applausi che i partiti tributavano ad ogni suo sospiro), via i vertici a vari livelli, che sono quasi scomparsi. Prevale l’indifferenza, da entrambi i lati e certamente da quello di Draghi. Che sa (anche sulla propria pelle) quanto la politica possa fare danni, ma sembra più preoccupato dai fattori macroeconomici che possono affaticare Paesi indebitati come l’Italia, piuttosto che da ciò che saranno capaci di combinare i partiti da qui alla fine della legislatura.

 

Del resto, mentre Salvini e Giorgia Meloni puntano il dito contro l’ex presidente della Bce e ciò che non riesce a fare, da Palazzo Chigi fanno notare come i mercati stiano cercando di capire chi potrebbe assumersi la responsabilità di guidare il Paese tra un anno, e come non trovino alcuno che gli dia garanzie, visto che il Pd non sembra avere la forza di reggere un governo e il centrodestra ha un problema non piccolo di leadership e di rappresentatività.

 

Tutto congiura per il galleggiamento. Da non sottovalutare il “fattore M”: Sergio Mattarella. Nonostante sieda nel posto che, obiettivamente, Draghi avrebbe voluto per sé, giurano infatti che il rapporto del premier con il capo dello Stato, dopo la rielezione, sia persino migliorato. Ulteriori ipotetiche staffette si possono solo postulare, mentre è certo che il presidente della Repubblica abbia sulla guerra una intesa con Draghi che non era scontata. Svolge in generale una azione di protezione del governo: sul fronte degli esteri è arrivato a paragonare la resistenza italiana a quella ucraina, sul fronte interno ha fatto sapere ai recalcitranti della maggioranza che non scioglierà anzitempo le Camere. Che poi sarebbe quella la vera nube all’orizzonte: un possibile strappo prima che arrivi la Finanziaria, col suo passo pesante, a chiudere tutti i giochi fingendo di aprirli. Ma non pare aria.

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