L’efficientamento è parola d’ordine del documento di Fratelli d’Italia che, come un Pokemon, ha subito almeno tre evoluzioni. Ma alla fine emerge con chiarezza un punto: dietro la libertà di scelta c’è un altro attacco alla scuola pubblica

Chi vive deve essere preparato ai cambiamenti», scrive Wolfgang Goethe ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Lo stesso concetto può essere espresso da una delle frasi più citate di Friedrich Nietzche, «quel che non ti uccide ti rafforza», che alla fine degli anni Novanta viene usata come slogan di lancio dei Pokémon, videogioco e altro di Satoshi Taijri. Una delle chiavi di Wilhelm Meister e dei Pokémon è infatti l’evoluzione: nel caso dei secondi, l’evoluzione medesima si svolge in tre tappe. Tre sono le evoluzioni del programma sulla scuola del centrodestra, prima diffuso, poi ritirato e infine ridiffuso, ed è interessante seguirle.

 

Prima evoluzione, che corrisponde a Pichu dei Pokémon. Nei 15 punti di Fratelli d’Italia le proposte erano fra le altre «efficientamento del percorso formativo per rendere competitivi i giovani italiani rispetto ai loro coetanei europei; abolizione della “Buona Scuola” e superamento dell’alternanza scuola lavoro (che non esiste più da tre anni, ma tant’è, ndr); concreto sistema di orientamento universitario e lavorativo». Per l’università, «ciclo di studi di 4 anni; abolizione della lotteria del test d’ingresso e introduzione di un sistema di accesso per reale merito al termine del primo anno di corso comune a più facoltà» (il che significa spostare il test di un anno, non abolirlo, ndr).

 

Il concetto di merito si chiarisce meglio nella seconda evoluzione, quando Pichu si trasforma in Pikachu e il pensiero sulla scuola negli Appunti per un programma conservatore che citano esplicitamente il pensiero di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi e contrastano l’idea «umiliante e perversa di democratizzazione e inclusione». Proposte: passare dalle bocciature ai livelli, ovvero «non ti boccio mai ma alla fine della scuola secondaria superiore non ti rilascio un diploma ma una scheda che dettaglia, materia per materia, il livello che sei stato in grado di raggiungere». Infine, il diritto di scegliere fra le scuole «in cui le priorità sono la socializzazione, l’intrattenimento, e la tutela (malintesa!) delle minoranze in difficoltà, e scuole in cui le priorità sono lo studio e l’acquisizione di conoscenze». Di più: «famiglie e insegnanti che non apprezzano la deriva dell’abbassamento dovrebbero avere il diritto di fondare scuole di tipo nuovo, cui si accede con appositi voucher». Un bel muro ideologico, insomma, come quello che separa Urras e Anarres ne I reietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin.

 

Cosa resta nella terza evoluzione (Pichu diventa Raichu, i 15 punti di Fratelli d’Italia diventano i 15 punti del centrodestra)? Cambiano i termini. «Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico» e «Maggiore sostegno agli studenti meritevoli» e «Valorizzazione e promozione delle scuole tecniche professionali volte all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro» e «Riconoscere la libertà di scelta educativa delle famiglie attraverso il buono», fra le altre cose.

 

Partiamo dell’efficientamento (si plachino i puristi: il termine esiste, ed è usato anche per il Ponte sullo Stretto). Girolamo De Michele, lo scrittore, insegnante e autore di un libro importantissimo come La scuola è di tutti, mi segnala che l’idea che i giovani non trovino lavoro perché privi delle necessarie competenze nasce con il rapporto Studio ergo lavoro del 2014 dell’agenzia McKinsey, del quale si servì Renzi per la Buona Scuola: «Dietro questa pretesa che le competenze servano a distinguere i meritevoli di successo nel mondo del lavoro, si cela l’ideologia della meritocrazia, il culto dell’eccellenza, la naturalizzazione della divisione della società in vincenti e perdenti». E aggiunge che quel frame è smentito dal 55° Rapporto Censis 2021, che descrive «un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che annovera tra i suoi componenti un numero elevato di laureati e una domanda di lavoro non del tutto orientata a inserire persone con livelli di istruzione elevati» e parla esplicitamente di «sottoutilizzo del capitale umano» e «dissipazione delle competenze».

 

Questo è il punto centrale: la scuola serve a formare cittadini consapevoli e attrezzati per la società complessa nella quale dovranno vivere, o lavoratori docili? L’istruzione è quella cosa di cui parlavano Tullio De Mauro, ma anche Franco Fortini, ma anche Antonio Gramsci o quella che desidera Confindustria? Il merito cresce nel vuoto pneumatico o è gravato da genere, classe, appartenenza? Altre domande: perché ridurre l’università di un anno, quando la vita media si è allungata e semmai bisognerebbe estendere il periodo di formazione? (La risposta soffia nel vento: per entrare prima nel mondo del lavoro). Eliminare il precariato dei docenti? Bello, ma come si risolve se non con il ripristino di cattedre, orari e discipline pre-riforma Gelmini?

 

Mentre le risposte continuano a vorticare nella bufera, ho chiesto a Girolamo De Michele di cosa non si parla. Di tante cose: per esempio del liceo di 4 anni, che in questa legislatura dovrà essere istituzionalizzato o meno dopo la sperimentazione. Dei contenuti: «Di quelli che attualmente ci sono, di quelli aboliti dalla riforma Gelmini (tre per tutti, nelle superiori: musica, e nella maggior parte degli indirizzi diritto e informatica); di quelli dell’Agenda 2030, che al momento non hanno uno spazio reale (sono dentro i contenuti di Educazione Civica, che però non ha né un’ora né un docente né fondi specifici dedicati)». Delle classi pollaio, dei criteri di attribuzione delle risorse che penalizzano le scuole più bisognose. Del fatto che questa è una scuola «classista, che non attua un reale ascensore sociale». E che infine, dando la possibilità alle famiglie di scegliere le scuole, i piani di studio, le modalità didattiche si perpetra un attacco frontale alla scuola pubblica, e alla scuola costituzionale.

 

Con un preoccupante punto preso dai pregressi (quelli livello Pichu). Dove si parla (si immagina riferendosi alla scuola) della «promozione dei corretti stili di vita; lotta all’alcolismo, alla droga e ai trafficanti di sostanze stupefacenti». Si chiama Stato Etico, che orienta le coscienze dei cittadini, invece di creare le condizioni per decidere autonomamente i propri valori e stili di vita.

 

In un famoso libro del 2004, L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit dicevano: «L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericoli incombenti». Così è anche peggio: si insegna a desiderare un mondo di efficientamento, e non è un bel mondo.