La proposta lanciata dal Pd è duramente contestata dalla Destra, mentre sindacati e studenti la appoggiano. Ma per portare benefici dovrebbe essere accompagnata da altri interventi

«C’è un tema enorme in questo Paese, durante la campagna elettorale se n’è parlato per un po’, poi è caduto». L’argomento cui alludono i rappresentanti di Udu, Unione degli universitari, e della Rete degli universitari medi è l’aumento della durata del ciclo di istruzione. Trattato per la prima volta dal segretario del Pd Enrico Letta durante il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini – attirandosi i fischi della platea – il tema aveva suscitato qualche reazione di accordo dal fronte centrista di Carlo Calenda e Matteo Renzi e diverse critiche. Il leader della Lega Matteo Salvini si era chiesto ironicamente perché un ragazzo che a 16 anni volesse andare a lavorare dovesse essere «costretto a rimanere a scuola».

 

Timide reazioni passate quasi inosservate in un dibattito dominato dall’altra parte della questione sollevata dal Pd, relativa all’introduzione dell’obbligatorietà degli asili nido. Il problema cui la proposta avanzata da Letta dovrebbe fornire una soluzione, però, è di primo piano.

 

Un recente rapporto di Save the children fissa la dispersione scolastica in Italia al 12.7 per cento. Il fenomeno riguarda principalmente i ragazzi e le ragazze che vengono da una condizione familiare segnata dal disagio sociale, economico e anche linguistico, nel caso dei figli di immigrati. L’estensione dell’obbligo fino ai 18 anni dovrebbe servire, secondo il Pd, a «formare meglio i nostri giovani, dare maggiore centralità al sistema scolastico, lottare contro le disuguaglianze». Studenti e sindacati contattati da L’Espresso sono per la maggior parte d’accordo con la proposta.

 

Se per il segretario confederale della Cisl Angelo Colombini, infatti, l’estensione dell’obbligo scolastico è un «falso problema», la segretaria nazionale Uil Scuola Francesca Ricci dice di «accogliere positivamente l’ipotesi di un percorso di istruzione più lungo», mentre il segretario generale della Flc Cgil Francesco Sinopoli rivendica tale provvedimento come una richiesta storica della propria sigla.

 

Secondo Udu e Rete degli universitari medi «innalzare l’obbligo scolastico non va visto come una costrizione. Il punto è dare valore alla scuola pubblica nella sua totalità fino a quella che viene considerata la maggiore età, dire a uno studente o una studentessa che frequenta una classe: “A noi Stato, istituzioni, istituzione scolastica, interessa fare di tutto affinché tu rimanga a scuola. E non perché ti devi sentire obbligato, ma perché devi rimanere il più possibile a studiare quello che ti interessa e a formarti”».

 

Studenti e sindacati concordano però anche nell’evidenziare l’insufficienza di una simile misura per contrastare un fenomeno alimentato dal circolo vizioso che lega povertà materiale e povertà educativa e che riguarda la parità di opportunità tra cittadini di questo Paese. Si è abituati a pensare che, una volta concluse le “scuole medie”, i ragazzi e le ragazze debbano essere inseriti in percorsi scolastici quinquennali che culminano nell’ottenimento di un diploma di maturità. Non è così. Gli studenti possono anche iscriversi agli Istituti professionali che, terminato il terzo anno, rilasciano già un titolo di qualifica spendibile nel mondo del lavoro. Ci sono poi i cosiddetti Iefp i corsi di istruzione e formazione professionale finanziati dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dalle regioni e attraverso fondi europei.

 

Questi corsi possono essere di durata triennale o quadriennale e portare, rispettivamente, all’ottenimento di una qualifica o di un diploma professionale. Lo stato delega la loro gestione alle diverse regioni che, a loro volta, ne “appaltano” la realizzazione a organismi di formazione professionale anche di natura privata o, sempre meno, agli Istituti professionali.

 

Così strutturati, i percorsi rientrano nell’ambito dell’assolvimento dell’obbligo scolastico e formativo e sembrano avere dalla loro parte il fatto di riuscire, almeno in parte, a sfavorire la dispersione scolastica e a facilitare l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro. La gestione differenziata per regione, però, crea una disparità territoriale a svantaggio delle zone del sud Italia.

 

Chi sceglie questa strada, poi, è spesso accomunato dallo stesso disagio di natura economica e sociale. La parziale lotta alla dispersione scolastica si realizza, quindi, a spese della possibilità di ciascuno di fare un salto rispetto alla propria condizione di partenza. Differenziare i percorsi all’età di 13 o 14 anni può portare a una prematura divisione sociale. Questo perché il sistema, nato per favorire il diritto allo studio di un numero maggiore di persone, secondo i rappresentanti di Udu e Studenti medi, «è rimasto a metà». Il fatto che le scuole medie abbiano una durata di tre anni fa sì che «a 12, 13 anni gli studenti siano costretti a dire “farò il meccanico”, spesso anche con un certo spirito classista. Nel senso che si hanno due possibilità, andare a fare il tecnico, l’elettrotecnico in una scuola professionale o tecnica oppure diventare la classe dirigente del futuro andando a fare il classico e lo scientifico».

 

È questo uno dei punti più criticati anche da Sinopoli della Flc Cgil che evidenzia la necessità di favorire «un percorso unitario e senza cesure fino ai 16 anni», in modo, anche, da rimandare scelte più “decisive” sul proprio futuro a un’età in cui i ragazzi e le ragazze siano più consapevoli di sé stessi e delle proprie aspirazioni. Sono d’accordo anche i rappresentanti dei sindacati studenteschi che sottolineano come «la differenziazione sia una cosa positiva se ben applicata».

 

Secondo Colombini della Cisl, invece, «è necessario investire nell’orientamento per garantire scelte consapevoli da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, favorire i rapporti tra stato, regioni e realtà produttive dei territori per promuovere percorsi che diano un reale sbocco lavorativo». Anche su questo gli studenti concordano.

 

«Dare gli strumenti per poter effettuare una scelta e soprattutto non imporla a un’età in cui inevitabilmente non si è pronti» sono per loro priorità. Accanto a queste, però, ce n’è un’altra ancora più urgente. La revisione dell’ex sistema di alternanza scuola-lavoro, oggi Pcto. Pur pensando come anacronistica la loro eliminazione gli studenti ritengono che sia arrivato il momento di ripensare il rapporto tra scuola e mondo del lavoro. A cominciare dalla sicurezza. «Bisogna introdurre l’obbligatorietà, per il 30 per cento del periodo di tirocinio, alla formazione sindacale e sui diritti del lavoro. È importante sapere che nel mondo del lavoro si hanno dei diritti». Bene, insomma, l’aumento dell’obbligo, ma la politica deve prima di tutto porsi una domanda. A cosa serve la scuola? Con le risposte cambiano le soluzioni.