Intervista

Rosy Bindi: «Il Pd è nato con tempi sbagliati. Vada oltre se stesso per creare la sinistra»

di Carlo Tecce   29 settembre 2022

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«Non basta un nuovo segretario per cambiare»: la fondatrice ed ex presidente del Partito democratico commenta il fallimento elettorale e indica un’unica strada per salvarsi. Poi lancia un appello ai Cinque Stelle, SI e Verdi: «Ciascuna componente del centrosinistra superi le contraddizioni per un cantiere che ricostruisca un campo progressista»

Ex presidente e fondatrice del Partito democratico, più volte ministro di rilievo, un quarto di secolo alla Camera, osservatrice distante e però sempre attenta.

Rosy Bindi, il Pd è un partito nato male?
«A mio avviso è nato troppo tardi e troppo presto».

Perché troppo tardi?
«Il momento propizio era nel ’96 con l’esperienza e la vittoria dell’Ulivo guidato da Romano Prodi. C’era l’occasione di consolidare un’intuizione politica, sfruttare quel vento, unire davvero le forze, non ricadere nella logica degli interessi di parte e dare vita a un soggetto politico nuovo, plurale, espressione delle culture politiche della sinistra comunista e socialista, cattolico democratica, ambientalista e liberal-democratica. Invece ci furono resistenze nei partiti, prevalsero l’individualità, i benefici immediati, la scarsa lungimiranza, e cadde il governo travolgendo l’Ulivo».

Perché troppo presto?
«Nel 2007 ci fu fretta poi di siglare un accordo tra le classi dirigenti per contrastare il berlusconismo che non concedeva tregua. Per la fretta e le ansie dei vertici non ci fu la vera costruzione di un progetto. Non ci fu una elaborazione culturale. Per questo motivo il partito, privo di radici profonde, è stato esposto ai continui assalti delle correnti. Così Matteo Renzi l’ha potuto scalare con rapidità e relativa facilità. Le radici profonde si formano con la visione, i programmi, la formazione delle classi dirigenti e l’organizzazione».

Non ci si è ravveduti nemmeno dopo la seconda segreteria di Renzi.
«No, perché la stessa classe dirigente che lo aveva appoggiato, di gran slancio, ha sostenuto con altrettanto slancio un altro segretario e un altro ancora. Non si sono interrogati mai sulla mutazione genetica che il partito aveva subito e sull’immagine che trasmetteva agli elettori. Le conseguenze di oggi non ci possono sorprendere. Erano più che prevedibili».

Com’è successo che un partito generato da solide culture popolari - quella comunista e quella democristiana - sia percepito indifferente e straniero nelle periferie e nelle fabbriche?
«Perché ha presto smarrito le proprie radici popolari, la capacità di stare in strada e la coerenza con le sue origini. Il Pd ha dimenticato di essere il custode di una tradizione di alcuni (non tutti) protagonisti del comunismo italiano e, non ce lo scordiamo mai, della sinistra democristiana. Queste caratteristiche imponevano al Pd un dialogo costante con le periferie della società, una lotta incessante alle diseguaglianze. La mancata attitudine a rivolgersi ai più deboli è un limite di questa stagione. La politica non riesce a interpretare le paure, le angosce, la solitudine dei cittadini, non è coinvolta nel loro quotidiano, non è vista come fonte di soluzioni, semmai di problemi o semplicemente inutile e superflua. Questa perdita di empatia tra la politica e la gente spiega l’astensionismo e lo spiega soprattutto a sinistra».

L’attuale classe dirigente dem ha governato 11 degli ultimi 12 anni senza vincere mai nelle urne. Quanti danni al partito ha causato l’abitudine al potere e come si cura in maniera efficace?
«Il Pd è visto come il partito dei ministeri e delle poltrone, e si deve chiedere perché. Io però sono più indulgente. Davvero il Pd si è comportato da partito responsabile e istituzionale, si è caricato colpe altrui e non ha mai abbandonato la nave, cioè il Paese. Certo che al Pd conveniva votare, per esempio, dopo la fine del governo Berlusconi nel 2011. Invece sostenne l’esecutivo tecnico di Mario Monti, si prese la sua porzione di responsabilità di fronte a manovre di bilancio devastanti per il tessuto sociale. Quella scelta, più o meno obbligata, fu pagata dal Pd nel 2013 e spinse oltre il 20 per cento i Cinque Stelle. Negli ultimi 25 anni l’opposizione ha premiato, governare no».

Letta ha convocato il congresso che di fatto posticipa di qualche mese le sue dimissioni e ha sottolineato che si dovrà “riflettere” su chi è il Pd e chi vuole essere il nuovo Pd. Per farla breve: cosa deve essere il nuovo Pd?
«Io non sono neanche più iscritta al partito, ma rimango fedele a una mia idea da diversi anni. Ne accennai già dopo il fallimento elettorale di Renzi nel 2018. In poche parole: il Pd deve mettersi a disposizione e ricostruire la sinistra plurale in Italia».

Il campo largo, un Ulivo nipote, un centrosinistra.
«Con i cartelli appesi non si va lontano. A Letta viene imputata la colpa di non aver organizzato un blocco contro la destra, ma le colpe sono di tutti. Quelli che hanno fatto in modo che la rottura fosse inevitabile e quelli che hanno rotto senza esitare. I Cinque Stelle esultano per essersi salvati, si sono finalmente collocati a sinistra e mi fa piacere perché hanno sciolto il loro enigma, però non è sufficiente. La Sinistra e i Verdi si sentono appagati dal 3 per cento abbondante, ma restano espressione di una sinistra minoritaria. Il Pd corre spedito verso il congresso, reagisce senza fare un’analisi della sconfitta, ma non basta allestire l’investitura di un ennesimo segretario e affidarsi ai rituali di congresso per riproporsi agli italiani con credibilità. Sarebbe accanimento terapeutico».

O il Pd completa la sua fondazione o non ha più senso di esistere?
«Io chiedo al Pd di andare oltre se stesso, superare le proprie contraddizioni e mettersi a disposizione di un cantiere che ricostruisca un campo democratico e progressista. Ciascuna componente del centrosinistra deve fare la propria parte. Rinunciare a qualcosa per conquistare insieme qualcosa di più importante e duraturo. Il centrodestra ha vinto, ma non è maggioranza nel Paese. Giorgia Meloni ha travasato in Fdi i vecchi consensi della Lega di Matteo Salvini e un pezzo è arrivato da ex elettori Cinque Stelle, segno che l’espansione di quell’area politica non è stata totale e non è irreversibile. Anzi è contrastabile».

Il dilemma di questi giorni sono le candidature alla segreteria. Abbondano. E ce ne sono di ogni tipo. Ci si interroga: per il futuro il Pd deve cercare dentro di sé un militante iconico com’era Meloni per la destra oppure deve guardarsi attorno e coinvolgere un altro Prodi.
«Nella mia prospettiva non va cercato il segretario del Pd, ma la classe dirigente del nuovo campo democratico e progressista».

Sui motori di ricerca la domanda più ricorrente che la riguarda è: che fine ha fatto Rosy Bindi?
«Oggi vado a parlare di lotta alla mafia agli studenti con l’Arci e la Cgil. Difendo la sanità pubblica con la mia associazione. Studio, leggo, faccio conferenze, addirittura per le Acli di Bergamo commento il Vangelo del giorno. La politica la faccio così. Non si deve far parte di una direzione di 400 persone per farla. La passione non si spegne»