Nel suo ultimo libro l’ex sindacalista Bentivogli lancia l’atto di accusa contro la classe dirigente. Manager e proprietari hanno solo saputo creare valore per se stessi, mentre le aziende sono in affanno e i lavoratori vivono e producono sempre peggio

Padroni, vil razza dannata. Narcisi, ossessionati dal controllo dei dipendenti, fustigatori di ogni slancio creativo, privi di merito se non nel fare rete con altri mediocri, pronti a spalleggiarsi a vicenda e a cadere senza danno mentre le aziende vanno a catafascio. E ricchi, sempre più ricchi, stolidamente ricchi. “Licenziate i padroni” (Rizzoli) è un titolo inatteso per un libro firmato da Marco Bentivogli, fino al 2020 leader dei metalmeccanici della Fim-Cisl, che era stata guidata dal padre Franco a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Potrebbe essere già più nelle corde del suo collega-rivale Maurizio Landini, passato dalla Fiom alla guida della Cgil che in compagnia della Uil ha consumato l’ennesimo strappo dal sindacato più centrista con lo sciopero del 17 novembre, ridotto a forza dalla precettazione di Matteo Salvini.

 

Ma Bentivogli non sarebbe d’accordo. Uscito dalla Cisl al termine di una resa dei conti con l’allora segretaria generale Annamaria Furlan, perché i rappresentanti dei lavoratori possono essere molto più litigiosi dei padroni, sostiene che i sindacalisti preferiti – lui scrive scelti - dai vertici aziendali si dividono in due razze: quelli che dicono sempre di sì, i cosiddetti gialli, e quelli che dicono sempre di no. Anche la spaccatura fra integrati e antagonisti è colpa di chi comanda senza comprendere l’utilità di un confronto, magari di uno scontro, con una controparte di alto profilo. I padroni, sempre loro.

 

La letteratura critica nei confronti della classe dominante è ormai talmente ricca a livello internazionale da non potere essere riassunta nello spazio di un articolo di giornale. Per restare all’Italia si possono citare due volumi. Il primo, dal titolo quasi uguale a quello di Bentivogli, è “Licenziare i padroni?” pubblicato nel 2004 da Massimo Mucchetti con una ricca casistica dedicata alla distruzione del valore in alcune importanti aziende italiane. L’altro è “La paga dei padroni” di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti, uscito nel 2008 in piena crisi finanziaria e dedicato alle follie salariali di un capitalismo nazionale svincolato da qualsiasi obbligo di risultato.

 

Bentivogli insiste poco su questa strada, già molto battuta. Inutilmente battuta, bisogna aggiungere. L’autore paragona lo stipendio di Carlos Tavares, numero uno di Stellantis, con la frugalità di un suo antico predecessore, Vittorio Valletta, quando la Fiat si chiamava solo Fiat e aveva sede a Torino. Secondo il braccio destro del senatore Giovanni Agnelli e poi di suo nipote l’Avvocato, anche il dirigente apicale non doveva prendere più di dieci volte lo stipendio dell’operaio. Bentivogli informa che Tavares ha guadagnato 19,1 milioni di euro nel 2021 cioè 758 volte di più del suo operaio. Se sembra tanto, nel 2022 Tavares ha incassato 23,5 milioni di euro in “total compensation” ossia un 22 per cento in più anno su anno che lo porta a costare quanto 932 operai. E sono 15 mila quelli invitati all’esodo volontario, una decina di giorni fa, con una semplice mail. Nel libro si ricorda un altro caso di galateo dimenticato nelle relazioni industriali. È quello della Caterpillar di Jesi, filiale della multinazionale partecipata dal fondo Blackrock e chiusa nel 2022 «senza neanche avere il coraggio di comunicarlo direttamente ai lavoratori». Eppure il ceo di Larry Fink nella lettera annuale ai soci aveva scritto: «La convinzione di BlackRock è che le imprese ottengano risultati migliori quando sono consapevoli del loro ruolo all’interno della società e quando agiscono nell’interesse dei loro dipendenti, clienti, comunità e azionisti».

 

Marco Bentivogli

 

Non sorprende che il dipendente, licenziato per il suo bene, sia scontento. Lo dimostra un sondaggio Gallup che fissa a un misero 5 per cento la quota di lavoratori italiani soddisfatti contro una media del 10 per cento dei paesi Ocse. Il saggio di Bentivogli fissa in buon ordine i motivi di questa infelicità che unisce la pubblica amministrazione con l’impresa privata. «In troppi ambiti i capi sono peggiori di quelli di una volta. Perché hanno ereditato ampie quote di autoritarismo, mascherandolo con l’affermazione “siamo una grande famiglia”, mentre non sanno davvero che cosa sia il lavoro e come oggi si possa lavorare bene». A sostegno della tesi ci sono i dati sulle dimissioni volontarie pubblicati dall’Inps. Nel 2021 1,074 milioni hanno lasciato il posto (+14 per cento sul 2019 pre-pandemico). Nel 2022 questa cifra è salita a 1,184 milioni. Chi può si sceglie il padrone, come chi può ha sempre fatto, magari con l’aiuto delle app modello Tripadvisor che recensiscono il datore di lavoro.

 

In questo nuovo mondo tossico creato dai capi, dove spiccano le nostalgie dell’autore per la vecchia fabbrica comunitaria e solidale, si può scegliere fra il Big quit, le dimissioni radicali, e il più diffuso quiet quitting, pratica di sapore fantozziano dove si molla il colpo senza avvertire il boss. Ci si limita a fare il minimo indispensabile, inclusa la quantità di lecchinismo utile a evitare reprimende.

 

Così la pandemia è stata un’occasione mancata per riorganizzare il lavoro in quello smart working che non significa stare a casa a sfacchinare senza orari. Da brividi è lo scambio citato fra Tim Cook, amministratore deelgato di un’azienda che si basa sull’innovazione, e i suoi dipendenti che disertavano l’Apple Park, la gigantesca sede inaugurata nel 2017. Nell’aprile del 2022 Cook ha diramato l’ordine di rientrare. La replica dei lavoratori, che per la prima volta hanno creato una struttura sindacale dentro il colosso della Silicon Valley, è stata sferzante. «Diciamo a tutti i nostri clienti quanto sono eccezionali i nostri prodotti per il lavoro a distanza, eppure noi stessi non possiamo usarli per lavorare da remoto?». E hanno concluso citando una frase del padre fondatore Steve Jobs: «Non ha senso assumere persone intelligenti e poi dire loro cosa fare. Assumiamo persone intelligenti in modo che possano dirci cosa fare».

 

I mantra di Jobs non hanno avuto grande seguito in Italia e, tutto sommato, neanche nel resto del mondo. Eppure Bentivogli si mostra ancora più sognatore del genio di Cupertino scomparso dodici anni fa e conclude: «I grandi leader non si limitano a detenere il potere; lo condividono con i loro dipendenti». In questa attesa messianica, continueremo a goderci capi narcisisti e incompetenti, esempio mirabile di selezione darwiniana al rovescio.