Dopo la commozione per il naufragio di Cutro, resta l’inerzia sull’immigrazione. A cominciare dal governo. Mentre i flussi ben gestiti sarebbero una ricchezza

Siamo rimasti attoniti di fronte alla tragedia nel mare di Crotone, più di altre volte, perché dopo il «certe cose non devono mai più accadere» sembriamo perdere ogni speranza, sprofondiamo, ci sentiamo impreparati a rispondere su come sia possibile convivere con tanta colpevole indifferenza.

 

Soccorritori e gente del posto, instancabili nell’alleviare le pene dei naufraghi e nel comporre le salme, accoglienti, ma affranti nel dramma della constatazione del parroco locale che chiede «com’è possibile che la morte arrivi prima di noi?».

 

E noi? È colpa del mare forza 7-8! È colpa degli scafisti e dei trafficanti di esseri umani! È colpa dell’Europa! È colpa di chi vuole accogliere tutti i clandestini! È colpa delle Ong che non perlustrano la nuova tratta del mare!

 

Il governo esprime il cordoglio dell’Italia, poi, con giustificazioni raccapriccianti, annuncia il nuovo approdo, non certo in un porto sicuro: «Dobbiamo impedire che s’imbarchino!». Versione edulcorata del «blocco navale», fandonia di vecchia data, successiva ad «aiutiamoli a casa loro», dimenticando che, spesso, non hanno più una casa.

 

Dalla legge Bossi-Fini, che trasformava le migrazioni epocali in clandestinità, nessuna significativa evoluzione per plurime responsabilità, incluse quelle europee. Ma fa specie la nuova capriola del governo contro l’Europa matrigna, a sette giorni dall’assenza al tavolo geopolitico di Monaco per poi convincerci, di ritorno dalla Polonia, che finalmente l’Ue ha cambiato passo e sull’immigrazione «siamo riusciti per la prima volta» a farle assumere delle responsabilità. Avanti così.

 

Migrazioni per motivi umanitari, rotta balcanica, rotte dalla Turchia, dalla Libia, dalla Tunisia continueranno, quindi occorre una strategia di flussi legali continuativi e corridoi emergenziali. Serve molto coraggio a tutti per passare dalla clandestinità alla cittadinanza, cioè dall’assistenza al lavoro, ma è una via obbligata. Non è questione di buonismo, bensì di progettare e finanziare grandi piani d’intervento per mansioni dal contenuto professionale via via più consistente e calibrato per chi ha competenze o esperienze di lavoro precedenti.

 

Ma noi, qui e in altre parti d’Europa, abbiamo enormi bisogni inevasi, a partire dalla mancata manutenzione ambientale di grandi e piccole aree private e pubbliche, le cui trascuratezze sono concause di frequenti disastri idrogeologici. Mentre affermiamo le ragioni culturali della transizione ecologica, della salvaguardia e della tutela della biodiversità, del suo equilibrio, iniziamo a manutenere davvero il territorio, in molti casi paesaggio di prim’ordine!

 

Serviranno incentivi fiscali, detrazioni, il 2x1000 per progetti in capo a soggetti locali, che potrebbero prendere la forma di progressiva autogestione degli stessi addetti formati. Insomma, la storia degli anni ’80, con le cooperative giovanili sulle terre incolte, ci insegna che quando abbiamo creduto a un nuovo protagonismo attivo le risposte non sono mancate. Peraltro esistono norme di crowdfunding che potrebbero mobilitare risorse impensabili e attivare partecipazione sociale. Lo sforzo sta nel trasformare l’immigrazione gestita in una risorsa.

 

E il made in Italy, a cui è stato dato rango ministeriale, pensiamo che goda di buona salute? Sarà replicabile per inerzia? È chiaro che il nuovo punto di crisi torna quello del lavoro, segnatamente della carenza di manodopera nel manifatturiero. Basta non fare più gli struzzi o illudersi che il mercato risolva tutto!