Il personaggio
Il ministro Salvini in lotta col politico Matteo. Per sfuggire al patto tra Berlusconi e Meloni
Il capo leghista si gioca la sopravvivenza politica, cerca di parlare di meno e fare di più. La partita delle nomine di Stato. I suoi nuovi consiglieri. E i rapporti interno al partito e soprattutto in Europa
Il ministro Matteo Salvini è seriamente intenzionato a stanare il suo principale avversario, un tipo frenetico, a volte superficiale, spesso istintivo: il politico Matteo Salvini. Non vi fate scoraggiare. Non passate avanti. Non date per scontata la resa. Può capitare una ricaduta. Una buca che faccia vacillare il ministro e lo renda di nuovo goffo, a tratti antipatico, un porto chiuso. Però i deputati e i senatori leghisti ne apprezzano l’impegno, la dedizione, il sacrificio a rivedere sé stesso. Essere Salvini è complicato, essere un altro Salvini lo è ancora di più. Varie fonti di partito concordano: «Se non fa mattate, in questa fase la sua carriera si allunga. Altrimenti…». Già: altrimenti, è finita.
Se è in gioco la sopravvivenza, allora subentra lo spirito di sopravvivenza. Le campagne elettorali in piazza o in tv gli sono congeniali, lì sbraita, arringa, addita. In Friuli Venezia Giulia, accanto al governatore Massimiliano Fedriga, era a suo agio nonostante la febbre. Questa attitudine, nel giro di un anno e mezzo, l’ha portato a procreare, poi a sostenere, infine a distruggere il governo di Mario Draghi, suscitando una severa reazione degli elettori alle urne. Elettori che, nel perpetuo confronto con Giorgia Meloni, hanno saputo riconoscere chi stava sinceramente all’opposizione e chi stava all’opposizione seduto (sdraiato) in maggioranza.
La prima accortezza, a rileggere l’ultimo semestre, è stata la scelta del ministero. Non il ritorno all’Interno per bloccare sbarchi di migranti che non si possono bloccare, insistere su un tema che non nutre più il consenso e che gli ha lasciato conseguenze giudiziarie (e comunque quel territorio lo presidia con Matteo Piantedosi), ma al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per mostrare agli elettori qualcosa di concreto. Che è capace di fare. Siccome l’esorbitanza è un suo difetto di fabbrica, spesso esagera. E il Ponte sullo Stretto e la cabina di regia per le Olimpiadi e il codice degli appalti e le automobili a combustione e il commissario alla siccità.
L’ingresso al ministero dei Trasporti, che fra i ministeri è il più sfuggente e forse il più impenetrabile, ha garantito a Salvini una protezione istituzionale anche attraverso il capo di gabinetto Alfredo Storto e il capo del legislativo Elena Griglio. Consulenti a dir poco pittoreschi come Antonio Capuano, di questi tempi, non hanno più facile accesso a Salvini. E il merito va condiviso fra la sua parte pubblica, cioè la citata protezione istituzionale, e parimenti la sua parte privata, cioè la fidanzata Francesca Verdini.
Il governo Meloni ha riavvicinato Salvini e Giancarlo Giorgetti: il ministro dei Trasporti e il ministro del Tesoro si devono parlare, i collaboratori devono interagire, le intese devono arrivare. Col governo Draghi uno era molto dentro, Giorgetti, e uno era quasi fuori, Salvini. Non importa che le incomprensioni fossero gonfiate in passato o siano troppo sgonfiate adesso, importa che Salvini non veda più Giorgetti come una minaccia al suo potere. La coppia ha imboccato uscite opposte alla rotonda della politica. Salvini vuole incentivare il suo lato istituzionale, ma il suo lato comiziante è sempre prevalente. Al terzo incarico di governo in quattro anni, in tre esecutivi con tre formati differenti, Giorgetti è attento a ogni suo lato istituzionale senza rinnegare la sua matrice leghista di provincia (ci va in campagna elettorale, eccome). Questo gli permette di annotarsi le richieste del senatore Alberto Bagnai per le nomine di Stato senza instradarle su corsie preferenziali unicamente perché Salvini ha elevato il prof. a responsabile leghista del ramo nomine di Stato. La presenza del ministro Roberto Calderoli al compleanno a sorpresa organizzato da Francesca Verdini, con la contemporanea assenza di altri parlamentari di rilievo, ha disegnato una gerarchia che rimanda all’epoca bossiana. La continuità è rappresentata dal portavoce Matteo Pandini e dal senatore Andrea Paganella. Per ragioni di vigore politico – il voto è stato un fallimento, sta in piedi per mancanza di alternative – Salvini è dedito alla ricomposizione interna.
Un altro fenomeno del momento suggerisce di stare vicini. Meloni e i suoi Fratelli d’Italia hanno scippato ai leghisti la relazione con Silvio Berlusconi e famiglia (e azienda), dunque hanno ridotto lo spazio vitale di Salvini. Negli equilibri tattici di un’alleanza di governo, leghisti e forzisti assieme erano un contrappeso a Fd. Separati, anzi isolati, i leghisti non possono farsi la guerra da soli. Non possono agevolare il lavoro di Meloni. Salvini era pronto a papparsi l’eredità politica di Berlusconi; ma chi ne detiene l’eredità imprenditoriale (e pure quella politica), cioè la famiglia di Arcore intesa come Pier Silvio e Marina, ha ottime interlocuzioni con la presidente del Consiglio. E poi Salvini non sfugge alla regola di Gianni Letta (che non l’ha mai amato). L’eminenza azzurra è cordiale con tutti, ma possiede una memoria profonda. Salvini non è stato intelligente a stringere patti con i nemici di Letta in Forza Italia. Quelli sono transeunti. Gianni Letta no.
Gli esami sono le elezioni europee. Un sollievo. Manca circa un anno. Meloni srotola gloriosi programmi in Europa. Il patto dei Conservatori. La vittoria contro i socialisti. Un suo candidato – uomo o donna, va stabilito – presidente della Commissione. Salvini non vorrebbe rimanere escluso dal gruppo, però non vuole neanche abbandonare l’amica sovranista francese Marine Le Pen. Oggi è totalmente concentrato sugli scenari italiani. Non va biasimato. Lo scorso anno era incagliato in bizzarri progetti per siglare la pace in Ucraina con un viaggio a Mosca e non va dimenticata la catastrofica trasferta in Polonia.
Con i leader non è fortunato. La fascinazione per Vladimir Putin. La sintonia con Viktor Orbán. Il corteggiamento a Donald Trump. Vanta la simpatia di Benjamin Netanyahu (si scrivono messaggi sul cellulare), il primo ministro di Israele che ha suscitato massicce proteste popolari per la sua riforma della giustizia.
La cautela è forestiera per Salvini. Ha aperto il capitolo nomine di Stato con un comunicato leghista, formalmente non ufficiale, però vidimato dal segretario, per chiedere un «cambio di passo» in Enel e in particolare in Eni. Salvini era perfettamente consapevole di non avere una minima possibilità di rimuovere l’amministratore delegato Claudio Descalzi in Eni, ma ha ordinato la provocazione per rifilare una gomitata a Meloni e mettere pressioni ai dirigenti di prima linea di Descalzi. Ha ottenuto il niente. S’è chiarito al telefono con Descalzi. Il dialogo fra i due rimane altalenante. La direzione di Mario Sechi all’agenzia di stampa Agi ha causato molti dissapori ai leghisti (e il suo sbarco a Palazzo Chigi li ha trasferiti nel governo). Peraltro Salvini ha contatti frequenti con il presidente milanista Paolo Scaroni, ex ad di Enel e di Eni per tre mandati finché non fu congedato da Matteo Renzi per promuovere Descalzi. Sente (ascolta) assiduamente Scaroni. Come il «suo deputato» Antonio Angelucci, re di cliniche private, editoria, mattoni. Come il dirigente Flavio Cattaneo, ex ad di tante società, vicepresidente di Italo. In questa lotta tra il Salvini ministro e il Salvini politico, tra l’essere e l’apparire, il maglione e la cravatta, il tirare a campare e il Ponte sullo Stretto a campata unica, sapete già chi vince.