Intervista
Monica Frassoni: «Dobbiamo creare una contro-lobby verde per difendere il Green Deal»
Serve un’alleanza tra imprese e Ong a difesa degli obiettivi Ue sulla transizione. E un blocco contro le resistenze dei conservatori Lo dice l’ex leader dei Verdi europei, oggi a capo di Euase
Serve un nuovo modello, frutto di un dialogo costante tra istituzioni europee e imprese, per spingere la transizione energetica. Charles Sabel, professore di Diritto e scienze sociali alla Columbia Law School, su invito del Forum Disuguaglianze Diversità, ne ha parlato con Fabrizio Barca e Rossella Muroni su L’Espresso. Monica Frassoni, già europarlamentare e presidente dei Verdi europei, guida un network del quale fanno parte imprese attive nel settore dell’efficienza energetica.
In Italia, la parola lobby è un tabù, ma è invece di questo che dovremmo parlare?
«La distinzione tra innovatori e conservatori attraversa ormai tutti i settori produttivi e sociali. Sui temi della transizione ecologica, sempre di più organizzazioni non governative ambientaliste, ma anche sindacati e altre associazioni della società civile lavorano assieme a settori industriali innovativi e “a prova di clima”».
È quello che fa lei?
«La mia organizzazione, European alliance to save energy (Euase), è nata sulla base di questo approccio nel 2010, dopo il fallimento della Cop di Copenaghen. È composta da organizzazioni internazionali a metà fra think tank e Ong militanti, come European climate foundation, E3G o il Kyoto Club e multinazionali come Siemens, Schneider, Signify (ex Philips), Knauf Insulation, Danfoss, che operano o operavano in settori industriali con un grosso impatto ambientale e che hanno deciso che abbracciare la transizione ecologica non è solo una scelta inevitabile, ma anche conveniente».
Un percorso non privo di intoppi, però?
«Questa collaborazione trasversale tra industria e società civile è partita in modo esplicito nel 2007-2008, dal primo pacchetto legislativo su riduzione delle emissioni, rinnovabili ed efficienza (il cosiddetto pacchetto 20/20/20) e si è diffusa nel corso del tempo. Ha avuto un impatto crescente nel dialogo con le istituzioni europee negli anni prima e durante la realizzazione del Green Deal. Tuttavia, allo scoppio della pandemia e poi con il conflitto in Ucraina, le lobby “fossili” si sono rimesse in pista, hanno abilmente alimentato la preoccupazione rispetto ai costi del Green Deal e hanno incoraggiato la spregiudicata scelta di parte dei conservatori e liberali di cavalcare questa preoccupazione».
Così anche in Europa il vento è cambiato?
«Oggi ogni voto al Parlamento europeo, anche nella commissione ambiente, va conquistato. È un cambio che è iniziato più o meno un anno e mezzo fa, intorno alla prima grande polemica che ha diviso il fronte del Green Deal, quella sull’uscita dalle auto a motore a combustione entro il 2035. I giochi erano fatti e la norma è passata, come peraltro (per fortuna) la maggior parte delle norme in materia energetica, ma più o meno da quel momento, il Ppe e il suo leader Manfred Weber, anche per ragioni di rivalità con Ursula von der Leyen, hanno iniziato ad avvicinarsi sistematicamente alle posizioni eco-scettiche e di destra dell’Assemblea. Norme che passavano di solito con larghe maggioranze sono diventate estremamente controverse».
Torniamo al tema iniziale: si dovrebbe mettere in piedi una contro-lobby di innovatori verdi?
«È quello che dice Sabel ed è quello che proviamo a fare da anni, ma bisogna avere grandi disponibilità economiche e organizzative. Fino a non molto tempo fa attori economici delle rinnovabili consideravano quelli dell’efficienza energetica quasi come rivali e viceversa. Una “Confindustria verde” va creata in modo coordinato».
E l’Italia come ha giocato sullo scacchiere europeo?
«Gli europarlamentari italiani – essendoci il sistema di preferenze su grandi circoscrizioni – cambiano molto più che quelli di altri Paesi. Quando arrivano, spesso non hanno un’esperienza o un interesse preciso per le questioni europee, a volte non parlano altre lingue, e comunque hanno bisogno di tempo per riuscire ad avere un impatto».
E il governo?
«Non aveva giocato in generale un ruolo né particolarmente positivo né negativo, anche perché la nostra Rappresentanza Permanente soffre di mancanza cronica di personale. Ma da un anno a questa parte l’atteggiamento del governo italiano sul Green Deal è cambiato radicalmente.
In che modo?
«Su case verdi, imballaggi, ripristino della natura, pesticidi sono riusciti a lavorare per tempo, costruendo alleanze e riuscendo a usare il fatto che l’Italia ha molti voti e può contare su vari altri governi eco-scettici per ridurre la portata di normative importanti per il Green Deal. Non è un mistero che il nostro governo conti su un cambio radicale di maggioranza nelle elezioni europee anche al fine di smantellare il Green Deal, pur se per fortuna la maggior parte delle norme sarà ormai adottata».
Serve ricreare un consenso ampio?
«Dobbiamo ritrovare la dinamica che ha portato l’Ue (e quindi l’Italia) a impegnarsi a diventare il primo continente a “emissioni zero” entro il 2050, ovvero la combinazione tra la forza della scienza, un’enorme mobilitazione di giovani e meno giovani, l’attenzione dei media, la consapevolezza di potere ottenere consensi elettorali sposando la causa verde. E dobbiamo essere in grado di convincere anche chi è politicamente lontano da noi e scettico. Perché altrimenti le conseguenze saranno molto gravi per tutte e tutti».
*Rossella Muroni è Presidente Nuove Ri-Generazioni e Forum Disuguaglianze e Diversità, Silvia Vaccaro è membro del Forum Disuguaglianze e Diversità