«La segretaria scelga se candidarsi, ma faccia una squadra nuova per le europee. Senza notabili». La maggioranza? «Incostituzionale». Il governo Meloni? «Vuol stravolgere la costituzione. E sulla giustizia è il proseguimento delle leggi ad personam. Berlusconi è morto, il berlusconismo no». Dialogo a 360 gradi con l'ex ministra

In questi giorni Forza Italia celebra i suoi trent’anni, era il 1994 quando Silvio Berlusconi entrava in politica e vinceva le sue prime elezioni. Al Senato c’è stata la prima votazione per abolire il reato di abuso d’ufficio, passaggio tra i tanti che parlano di uno smantellamento in corso della legislazione anticorruzione costruita nel dopo Tangentopoli. In Campania vengono arrestati in pochi giorni un sindaco di Fratelli d’Italia e un ex coordinatore della segreteria del Pd.

 

Rosy Bindi, questo trentennio è passato invano e siamo ancora alla questione morale?
«Il mio giudizio su questi trent’anni è che la politica non ha mai posto al centro la questione morale, non ha fino in fondo preso sul serio quello che era accaduto con Mani pulite. La grande questione del conflitto tra politica e giustizia nasce lì. La politica si lamenta dell’invasione della giustizia nel suo territorio ma non ammette che la prima responsabilità è proprio la sua: se tu non vuoi che altri emettano un giudizio e anzi ritieni che la sede della giustizia sia impropria, devi avere il coraggio di guardarti, di giudicare i tuoi comportamenti. All’epoca qualcosa si fece, ma furono reazioni del momento: non sono diventati elementi strutturali».

 

C’entra l’ingresso in scena di Silvio Berlusconi, in questo processo interrotto?
«C’entrano gli anni Ottanta, gli anni della degenerazione, lungo i quali ci siamo mangiati le conquiste degli anni Settanta, c’entra quindi sicuramente Berlusconi, perché anche lui è figlio di quella stagione: il Berlusconi politico è figlio della sua televisione, figlio del modo col quale ha fatto l’imprenditore. È figlio del berlusconismo, oltre a esserne il padre. Non a caso il popolo indignato di fronte alla corruzione dei politici, nel 1994, non si affida a quella parte di classe dirigente che aveva preso le distanze dai comportamenti dei predecessori ma, per paradosso, elegge Berlusconi. Non certo un campione di moralità. Che però si era avvantaggiato di Tangentopoli. Le reti Fininvest sono state tra le più accanite contro le classi dirigenti che venivano messe alla gogna, nel dire facciamo fuori il vecchio sistema e preferiamo quello nuovo, secondo il noto principio: tutto cambia perché nulla cambi. A quel punto la politica non solo non ha emesso un giudizio esigente su se stessa, ma ha rivendicato l’impunità rispetto alla giustizia».

 

E siamo rimasti là?
«Oggi quel processo si sta portando a compimento. La riforma della giustizia del governo Meloni è in qualche modo la continuazione delle leggi ad personam. Berlusconi è morto, il berlusconismo no».

 

Vive.
«E ha varie sfaccettature: va a toccare addirittura l’architettura costituzionale con la separazione delle carriere, toglie strumenti per scoprire reati come l’abuso d’ufficio, che sono sentinelle della corretta azione nella pubblica amministrazione; e per altro verso attua politiche della giustizia securitarie nei confronti della povera gente. Ed è un forte peggioramento: questa destra è erede di Berlusconi per quanto riguarda l’impunità dei potenti, ma è sicuramente molto più illiberale di lui per quanto riguarda il pugno forte coi disgraziati. Siamo al contrario dello Stato di diritto».

 

Flavia Perina ha ricordato l’evoluzione di Giorgia Meloni, che cominciò a fare politica dopo la strage di via d’Amelio: dalla destra legalitaria alla destra Santanchè.
«Abbiamo Santanchè, Sgarbi, Delmastro. È roba dell’altro mondo. La premier potrebbe ricordarsi di avere scelto di fare politica il giorno in cui veniva ammazzato Borsellino: il suo comportamento dice che lei sta combattendo la mafia di ieri, quella stragista, non la mafia di oggi, quella degli affari. Se si modifica come hanno modificato, per esempio, la legge sugli appalti, se ci si dimostra così insofferenti nei confronti dell’autorità anticorruzione, se si ignorano le audizioni dei magistrati, il parere della Dda anche nell’abolizione dell’abuso d’ufficio, è evidente che non si sta combattendo la mafia: le si stanno facendo i favori. Si vuole accarezzare un Paese insofferente nei confronti delle regole, perché ciò dal punto di vista elettorale premia, e allora ci si dimentica dei declamati sacri principi del passato, persi abbastanza in fretta, in un solo anno di governo».

 

Ed è tornata in voga l’espressione “conflitto di interessi”.
«Non avendo affrontato a suo tempo neanche quella questione, oggi siamo in una miriade di conflitti di interesse. Ma l’aspetto che a me preoccupa di più dell’azione di governo sono le riforme costituzionali, che hanno come unico vero obiettivo quello di distruggere l’impianto complessivo della Costituzione italiana, nata e fondata sull’antifascismo. E anche in questo c’è la continuità con Berlusconi, un processo che viene a compimento. Quando si chiede che la premier si definisca non a-fascista ma anti-fascista, e così anche il presidente del Senato, non è un fatto banale: chi ci sta governando oggi non ha mai sottoscritto fino in fondo forma e sostanza della democrazia contenuta nella nostra Carta costituzionale».

 

Agita anche lei lo spauracchio fascista?
«Al contrario: non ho paura della violenza dei minoritari gruppi post-fascisti, però c’è il rischio di una torsione autoritaria della nostra democrazia. Perché l’elezione diretta del premier, che toglie ogni autorità di garanzia al presidente della Repubblica e svilisce il Parlamento, in combinazione con l’Autonomia differenziata, che consente a quelli che stanno meglio di liberarsi del fardello di quelli che stanno peggio, rappresenta un cambiamento pericoloso: il problema non è che torna il fascismo, il problema è che cambiano i connotati della nostra democrazia».

 

E cosa si fa? C’è, per citare Vittorini, qualcuno che ha «febbre di fare qualcosa in contrario»? Come si ferma tutto questo?
«Si ferma non correndo dietro alle armi di distrazione di massa che obiettivamente ci offrono ogni giorno, lavorando invece a far percepire al Paese il disegno complessivo che c’è. Non bastano le dichiarazioni, per quanto condivisibili. Bisogna ricreare una pedagogia, un patriottismo costituzionale, cercare di far capire che questi non sono dettagli, non sono questioni di palazzo. Perché a una certa idea di democrazia è legato anche il rispetto dei diritti fondamentali delle persone».

 

Per questo aveva suggerito di formare i comitati per il no alla riforma?
«Intanto li chiamerei i comitati per la Costituzione, pronti poi a diventare comitati per il no. Lo so che sarà difficile il referendum, capisco che il Paese soffre, che è distratto perché ha i problemi del quotidiano, pensa che sia un lusso la democrazia, è un po’ impaurito. Perché se il lavoro non c’è, le disuguaglianze aumentano, la salute non è più tutelata, per quale motivo dovremmo essere affezionati alla Costituzione, alla politica? Ma non possiamo rinunciare a far capire che questo è il cuore: il legame tra la democrazia e i diritti non è un fatto formale. Se in questi anni i nostri diritti si sono affievoliti, la soluzione non è meno democrazia, ma più democrazia».

 

Ma l’opposizione si oppone? Elly Schlein che va in giro a parlare di salute e salario minimo appare piuttosto isolata.
«Sento delle critiche. Ma da Schlein non ho mai sentito dire una cosa che non condivido: il salario minimo, la battaglia per la sanità, l’idea dell’Europa. Quello su cui credo bisognerà che il centrosinistra si concentri è come riuscire a ridare fiducia agli italiani sul fatto che tutto questo non è andato perso, si può riconquistare. C’è il rischio che ciascuno si rifugi in soluzioni individualistiche. Serve invece una comunità, bisogna stringere alleanze nella società. Non si fa da soli un cambiamento del genere».

 

E ci sono le condizioni?
«Penso che il Paese abbia bisogno di essere risvegliato, di riconoscersi in un progetto. È da tempo che abbiamo rinunciato a mostrare chiaramente di essere l’alternativa a questo piano inclinato del berlusconismo che ci ha portato fino a una maggioranza incostituzionale: legittima, ma che sta facendo scelte e riforme incostituzionali».

 

Al momento tiene banco il tema delle candidature europee. Correrebbe se glielo chiedessero?
«Escludo lo facciano e comunque, come ho detto nel mio ultimo intervento al Pd, la mia carriera parlamentare si è chiusa serenamente e definitivamente nel 2018, due avverbi non scelti a caso. Per quel che riguarda i leader, Schlein farà la scelta che ritiene opportuna: considero molto più grave si candidi la presidente del Consiglio, che dovrebbe fare ben altro che non campagna elettorale. Mi limito a dire all’opposizione che dovrebbe preoccuparsi, più che delle percentuali, di formare una classe dirigente per l’Europa: è un consiglio in maniera particolare a Schlein, che la parlamentare europea l’ha fatta e sa che è un posto importante e molto impegnativo».

 

Serve una squadra per l’Europa.
«E non un ricollocamento per gente a fine incarico, come Dario Nardella e Matteo Ricci. Tutti bravi: ma fare l’europarlamentare non è una sine cura o un modo per continuare le carriere».

 

Per il Correre della Sera lei è l’unica altra donna del Pd, oltre a Schlein, a essere arrivata senza cooptazione.
«È vero, ho sempre avuto una mia autonomia, un capocorrente maschio mai. E non ho voluto fare una mia corrente: questo molti me lo rimproverano»

 

La segretaria dovrebbe farsi una corrente?
«Per carità: deve piuttosto fare un partito coerente con il mandato che ha ricevuto con l’elezione alle primarie. Un mandato unico nella storia dem: perfino i passanti, da fuori, hanno contraddetto le classi dirigenti che, da dentro, stavano praticamente tutte con Stefano Bonaccini. È stato il segnale evidente che quel Partito democratico lì non andava bene. E quindi, in questo senso specifico, accidenti se non si è sciolto il Pd: ora lei deve portare avanti con determinazione il suo progetto, tenere unito il partito sulla base del mandato dei suoi elettori, ignorando quelli che per astuzia l’hanno appoggiata e che ora naturalmente le danno più problemi».

 

Una configurazione complicata. Come se ne esce?
«Aprendo. Sarebbe l’ora di quella fase costituente che Enrico Letta annunciò. C’è un mondo fuori che ha bisogno di essere ascoltato, che ha forse qualcosa da dire, che forse potrebbe rinvigorire il Pd. Aprire il partito, e ricostruirlo daccapo».