In Italia la propone l’opposizione di centrosinistra, in Francia il governo di centrodestra. Tra pro e contro. Ma il nodo, a livello globale, è regolarela tassazione e far tornare i conti

Ma la patrimoniale è esclusivamente di sinistra? No, testimonia il passato. A proporla in Italia, dopo la Liberazione, fra il 1945 e il 1946, furono non solo il comunista Mauro Scoccimarro, ministro delle Finanze del governo Parri, ma anche, con rigore scientifico, il liberale Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica. A gettare ancora più scompiglio, in questi giorni, sono le manovre economiche di Italia e Francia, tutte e due sotto i riflettori di Bruxelles. Quell’imposta che a Roma riemerge dal centrosinistra come una delle ricette alternative alla terza legge di Bilancio del governo di Giorgia Meloni, e che la maggioranza non vuole neppure sentire nominare, a Parigi è proposta dal centrodestra al quale Emmanuel Macron ha affidato il governo nazionale.

Altro paradosso: la patrimoniale francese – che farebbe piacere a una parte consistente del Pd, se fosse adottata a casa nostra – in Francia è parte integrante di una manovra economica che l’opposizione di sinistra, il Nuovo Fronte Popolare, definisce «il piano di austerità più violento che la Francia abbia mai conosciuto», come dichiara Manuel Bompard di France Insoumise. In contrapposizione con i fedelissimi di Macron che evocano «scelte difficili e coraggiose», compresa l’imposta straordinaria a carico dei contribuenti più ricchi e delle aziende che hanno ottenuto extraprofitti. Appunto, la patrimoniale alla francese.

Su nomina di Macron, dai primi giorni di settembre, è il post-gollista Michel Barnier a guidare un governo sostanzialmente di centrodestra insieme con i macroniani: un governo “graziato” da Marine Le Pen, che gli assicura di fatto il sostegno esterno. Con la denuncia di una «crisi finanziaria» ed evocando il «debito colossale» della Francia, Barnier ha deciso di varare una maxi-manovra da 60 miliardi di euro, 40 di tagli e 20 di nuove entrate fiscali, per non rischiare che nel 2024 il deficit  superi il 6 per cento.

In Italia? Dall’opposizione, Elly Schlein ha proposto una patrimoniale per super ricchi, un’imposta internazionale, specialmente per le multinazionali, sulla scia del presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula, al G20 di Rio nel luglio scorso. Allo stesso tempo, la leader del Pd ha precisato: «Non saremmo d’accordo ad andare ad aumentare le tasse per il ceto medio». Quanto al governo, dopo avere sorpreso l’intero centrodestra con l’intervista a Bloomberg sui «sacrifici», il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha rassicurato «famiglie e imprese» che possono restare «tranquille». Ma l’aver evocato l’aumento delle tasse, nonostante le successive precisazioni e  smentite, può diventare un precedente da fare valere più concretamente, non tanto questa volta, davanti alla levata di scudi della stessa premier, ma piuttosto quando saranno approntate le future leggi di Bilancio, quelle che per sette anni saranno accompagnate da 13 miliardi da destinare ogni dodici mesi al rientro dal debito e dal deficit (Piano strutturale di Bilancio).

«Il tema delle tasse ormai si impone in diversi Paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti», osserva l’economista Giorgio Arfaras. «Non c’è solo la Francia, anche Kamala Harris – ricorda – vuole alzare le imposte sui ricchi marginalmente e anche i dazi. Siamo ormai davanti a un universo fiscale, a un fenomeno globale che, quindi, non riguarda solo gli italiani». Un altro economista, Tommaso Nannicini (ex parlamentare del Pd ed ex sottosegretario di Palazzo Chigi nel governo Renzi), la vede non molto diversamente: «C’è la consapevolezza, che tardivamente appartiene anche alla classe politica italiana, di una iniquità fiscale di fondo, nel senso che c’è un’elusione, non solo un’evasione, delle imposte sul piano internazionale».

Poi, nello specifico, «il governo Meloni – ricorda Arfaras – non può alzare le imposte sul reddito, anzi deve abbassarle, perché è la maggiore promessa fatta agli elettori». Perciò cerca i soldi altrove, «guardando in particolare alle banche, che in questi anni, grazie alla Banca centrale europea, hanno guadagnato molto alzando i tassi attivi senza variare quelli passivi, con la conseguenza che i conti correnti non ne hanno tratto alcun beneficio». Tutto questo è avvenuto «anche perché non c’è concorrenza fra gli istituti creditizi, con il risultato di guadagni anomali, dovuti cioè non a meriti propri, ma a circostanze esterne, rappresentate dall’aumento dei tassi da parte di Francoforte».

Le tasse non sono più un tabù? «Sì – risponde Arfaras – ma politicamente non fino ad arrivare alla patrimoniale alla francese, che, per essere adottata, richiederebbe in Italia non un governo di centrodestra, come avviene a Parigi con Barnier, ma un governo di centrosinistra o di campo largo. Con la sottigliezza, però, che  nessuno propone di aumentare le imposte sul ceto medio; si guarda solo ai super ricchi, come fa Schlein, ma così si immagina una patrimoniale che non funziona in nessuna parte del mondo. Perché si tratta di una fascia della popolazione che poi elude il fisco e il gettito risulta comunque modesto».

Concorda Nannicini: «La patrimoniale, per come viene presentata, appare una misura simbolica. Tutti i Paesi che sono ricorsi a imposte straordinarie sulla ricchezza hanno ottenuto gettiti limitati. Anche la Francia va incontro allo stesso rischio». A tutt’altro pensava, quasi ottant’anni fa, Luigi Einaudi: «Un taglio del 20 per cento, una volta tanto, sul patrimonio accumulato». Ma non va dimenticato il contesto: dopo la guerra, uno sforzo straordinario «per la ricostruzione» che gravasse anche sul ceto medio. Non se ne fece nulla e anche la sinistra, per realismo, rinunciò.