Un romanzo d’amore sul Ventennio. E una previsione: “Ci aspetta un lungo cammino, ma il tempo è alleato: più si va avanti, più la destra farà acqua”. Parla il senatore Pd

Dario Franceschini uno e bino. Lo scrittore vorrebbe parlare solo del suo ultimo romanzo, “Aqua e tera” (La nave di Teseo), il politico si intromette continuamente. Lo scrittore vorrebbe una divisione ordinata degli spazi; il politico annuisce ma dopo un minuto fa il contrario. Non per niente Franceschini, senatore, ex ministro, ex segretario del Pd, una lunga carriera cominciata tra giovani democristiani, è in politica dai tempi del liceo. «Sarebbero servite più vite: i due sono costretti a convivere, la verità è che convivono male». Il risultato, anche dell’intervista, è una mescolanza di ieri e di oggi, echi di una vita nell’altra: “Aqua e tera” è ambientato nella Ferrara tra il biennio rosso e il secondo dopoguerra, le protagoniste sono immaginate ma la cornice storica, i luoghi, i nomi, sono tutti veri, vengono fuori dalla tesi di laurea di Franceschini. Ne parliamo a Sant’Ivo alla Sapienza, fino al 1936 sede dell’università di Roma. A San Lorenzo si sono appena celebrati i funerali di Iole Mancini, 104 anni, l’ultima partigiana sopravvissuta alle torture di via Tasso. Al Circo Massimo, che Mussolini aveva trasformato in un villaggio balneare, i Fratelli d’Italia allestiscono il villaggio di Atreju e celebrano la via italiana al Natale. È appena finita una lunga stagione di elezioni, le politiche del ’27 sono lontane. Il politico si intromette subito: «Non c’è mai stata negli ultimi anni una traversata lunga così come quella che ci aspetta, col governo stabile nei numeri e l’opposizione che si deve organizzare. Ha delle cose positive, il tempo, ma ha anche dei rischi: perché per il Pd l’effetto novità arrivato con l’elezione di Schlein, dopo 5 anni non ci sarà più. E gli alleati sono tutti scomodi. A vederla al rovescio, il tempo è un alleato: più si va avanti, più la destra farà acqua. Non sono in grado di governare bene. Sono mediocri. Anche se poi non è detto che gli italiani si aspettino grandi cambiamenti». 

 

L’Italia è cambiata abbastanza in cent’anni? Nel cuore del suo romanzo ci sono temi scandalosi, allora ma anche adesso: l’amore tra due donne, i pregiudizi, la maternità di pancia e quella di cuore, il maschilismo. 
«Non avevo intenzione di ricollegarmi così tanto ai temi di oggi. Scrivendo mi è venuto fuori che a innamorarsi, anziché un uomo e una donna, sono due ragazze: qualcuno s’è stupito che ne scrivessi, a me pare una cosa normale nella vita, capita. La storia d’amore, è quella che conta».

 

Tutti i personaggi maschili sono negativi o mediocri, tranne due o tre. Perché?
«È uscita la verità. Le donne hanno una marcia in più, è il bilancio della mia vita, ormai ho un’età: hanno più forza morale, e fisica. Affrontano fatiche terribili».

 

La lotta al maschilismo ha fatto progressi?
«Molti passi avanti. E ce ne sono ancora da fare, ma si faranno. In Italia abbiamo una donna capo del governo e una donna a capo dell’opposizione. Avremmo potuto immaginarlo, solo dieci anni fa? È una novità dirompente. Immagino che sia proprio difficile tornare indietro».

 

Quando una donna ha potere, il racconto vuole sempre che ci sia qualcuno che sugerisce, che manovra, che ispira. Penso a Elly Schlein, ma è solo l’ultimo dei casi. «Sono residui di maschilismo, perché se si tratta di un uomo non ci si mette a cercare chi ha dietro le spalle. Vero, ma è tutta roba che tramonta. Il pregiudizio finisce contro i fatti. Fra l’altro, se c’è una che, giustamente, ragiona proprio di testa sua è Elly Schlein. Ascolta, discute, poi però decide lei». Perché ha scritto questo romanzo? «Avevo fatto la tesi di laurea, in storia delle Dottrine politiche, sul primo dopoguerra a Ferrara. Da allora ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto inserire una vicenda personale, di rottura rispetto a quel clima di violenza, ed è venuta fuori quarant’anni dopo la storia delle due ragazze».

 

Si è rimesso a studiare? «Certo. Allora pensavo di proseguire l’università, mi è sempre rimasta la passione per la storia. A scavare si trovano delle storie fantastiche: per esempio nei giornali dell’epoca ho trovato solo adesso l’episodio belissimo del treno dei bambini, quarant’anni prima di quello raccontato nel bellissimo libro di Viola Ardone: è il 1907, povera gente che per scioperare affidava i figli ad altre famiglie povere, che li ospitano. Una solidarietà enorme, ce la sogniamo».

 

Nel romanzo c’è anche la Camera, i militanti delle leghe socialiste che entrano per ascoltare un discorso di Matteotti nel 1921. Come è stato per lei entrare per la prima volta a Montecitorio, nel 2001? «Un momento di commozione familiare. Mio padre è stato parlamentare nella legislatura del 1953, aveva 32 anni. Ho sentito fin da piccolo il racconto di quegli anni. Entrare nell’Aula la prima volta è stata un’emozione fortissima, ricordo ancora il momento, la solennità. Lo è per tutti quelli che fanno politica. Pensavo a tutti questi uomini e donne del dopoguerra, arrivati a Montecitorio coi cappotti lisi, la democrazia dopo la guerra e la dittatura. Mi è sembrato un po’ di rivivere quel passaggio». Volle accanto suo padre per giurare sulla Costituzione, da segretario del Pd, 2009. «Quella piccola cerimonia la volli fare davanti al castello di Ferrara, nel posto dove vennero ammazzati 11 antifascisti nella notte del 1943. Non è stato detto, ma è lo stesso posto dove nel 1920 c’è quella strage che racconto nel romanzo dove vengono ammazzati tre fascisti e un socialista».


Era il momento delle lotte per la difesa della Costituzione dalle riforme di Berlusconi.
«Mio padre aveva già novant’anni, ci sono in rete le foto. Non era tanto convinto. Quando gli avevo telefonato per proporgli questa cosa, mi aveva risposto: “Mah, fai tu”. È stato accondiscendente, per amore verso suo figlio. Dopo però è stato contento».


Il rito di celebrare la Costituzione è ancora più attuale ora?
«È sempre attuale, ma c’è una differenza. La politica italiana ha sempre avuto come grande collante la paura dell’avversario: Dc-Pci, Berlusconi che evocava il pericolo comunista, noi che evocavamo il pericolo Berlusconi. Adesso mi pare che la paura sia scomparsa. Non è più il collante: Meloni semmai non è capace, ma non è che fa paura; e noi ispiriamo tanti sentimenti, ma non la paura. Non avere più l’avversario come demonio costringe a un rapporto tra maggioranza e opposizione diverso, più sui contenuti. Adattarsi è complicato».


Ci mette molto a scrivere?
«La narrazione è come un vortice, ti trascina. Non vorresti altro che ricavare due ore per andare avanti. Non mi appartiene l’immagine dello scrittore che guarda l’oceano, in una veranda, nel silenzio. Scrivo ovunque, negli aeroporti, nel caos. Lo faccio nei ritagli di tempo. E magari davanti al mare non riuscirei a buttare giù una riga». 

 

Quando inizia sa già dove andrà a finire? «Assolutamente no. Narrando, la storia prende una strada, i personaggi ti tirano da una parte. C’è quel racconto di Marquez che torna a letto una notte, la moglie sen- te che sta singhiozzando, accende la luce e gli chiede: perché piangi? Perché è morto il colonnello Buendia. Bellissimo. L’aveva fatto morire, perché lo scrivere ti sfugge di mano. Corri il rischio di sentirti onnipotente, perché dai la vita, la morte, cambi epoca, non hai vincoli».

 

L’onnipotenza è un rischio sempre. Anche nel potere.
«No, quella è imbecillità. Per carità. Se un politico crede di essere onnipotente bisogna ricoverarlo».

 

Come convivono il politico e lo scrittore?
«Convivono male. Gli elettori dal politico si aspettano concretezza, pragmatismo, realismo, i lettori dallo scrittore si aspettano fantasia, trasgressione, immaginazione. Come tieni insieme i due? Un politico che scrive romanzi è respingente, anche per me. Cosa gli viene in mente di scrivere un romanzo, pensi a far politica!»