Opposizione
Giuseppe Conte non vuol fare l'alleanza con il Pd (a meno che non sia lui il capo). Ecco perché lo attacca
Elly Schlein mette in pausa la fase zen dopo l'ennesima «mistificazione» del leader M5S sui dem «bellicisti»: «Se insulta noi invece del governo sbaglia strada. Ne risponderà ai suoi elettori»
La questione era già nell’aria da un pezzo, ma non si era presentata in modo così chiaro come negli ultimi due giorni. E spiega perché dopo settimane di silenzio gandhiano la segretaria dem Elly Schlein abbia rotto la postura zen e risposto dura al leader grillino: «Non siamo disponibili a subire attacchi e mistificazioni. Non si fa politica guardando nello specchietto retrovisore, abbiamo le nostre differenze, ma abbiamo anche la responsabilità di lavorare nella maniera più unitaria possibile», dice. E aggiunge che se Conte «pensa di attaccare il Pd anziché attaccare il governo sta sbagliando strada. Come io risponderò ai miei elettori loro risponderanno ai loro elettori».
Una replica dura a quello che era affiorato in questi giorni. E cioè, a dirla con brutale sintesi: il capo dei M5S non ha alcuna intenzione di stringere davvero un’alleanza con il Pd, a lavorare a un’opposizione organica, a meno che non sia lui a fare il leader, a guidare la coalizione. E c’è, peraltro, una parte del Pd che non sembra contraria all’idea di «pagare un prezzo» in nome della «responsabilità», come fece appunto ai tempi del Conte 2, quel governo giallo-rosa in nome del quale nell’agosto-settembre 2019 il Pd non solo rinunciò ad andare al voto, ma accettò che il premier restasse lo stesso del governo precedente, spalancandogli di fatto le porte per diventare – parole scolpite da Nicola Zingaretti, allora segretario - «un riferimento fortissimo della sinistra».
Lo si è plasticamente visto nel polemico «no» pronunciato dal leader grillino al sit-in sotto la Rai lanciato e confermato dalla segretaria dem («forse non sentono come noi il problema e l'urgenza di intervenire rispetto all'uso propagandistico che il governo sta facendo del servizio pubblico», è la replica di Schlein) e, soprattutto, durante la presentazione alla sala della Regina di Montecitorio del libro di Roberto Speranza dedicato alla pandemia. Là dove il leader M5S è finalmente risorto premier e l’ex leader di Articolo 1 è tornato temporaneamente ad essere il suo ministro. «Abbiamo già governato insieme», ha detto Speranza con una strana dose di nostalgia, arrivando ad aggiungere che per sua convinzione anche il Paese appoggiava quella maggioranza: «Se fossimo andati al voto dopo la caduta del Conte 2 avremmo vinto le elezioni», dice. E se oggi quell’alchimia, quella coesione, non funziona è solo una questione di volontà: «Dobbiamo fare di più e lavorarci meglio».
Eppure proprio Conte è il primo a non essere d’accordo. Dice infatti chiaro e tondo di stare comodo in minoranza: «L’opposizione puoi viverla male o la puoi vivere in modo intelligente e costruttivo. Per caratteristiche del M5S, per natura, struttura e presenza sui territori, e per come la nostra comunità approccia a questo tema, l’opposizione per noi non è un problema». La tesi è ampiamente verificabile nel comportamento del Movimento a partire dall’autunno del 22. Tanto più che in questi mesi i Cinque stelle hanno costruito uno spazio di trattativa con la maggioranza ben più ampio di quello che ha ritagliato per sé il Pd. Ne è prova fra le altre cose l’atteggiamento nei confronti della tv pubblica: ancora prima dell’avvio di una trattativa grillino-meloniana per la riforma della Rai, reso noto in questi giorni, è l’astensione nel cda del consigliere pentastellato Alessandro Di Majo a consentire il debutto della nuova governance Rai targata Meloni; e c’è di nuovo il suo voto, a ottobre, per l’approvazione del contratto di servizio. Una collaborazione ampiamente bilanciata, come Cencelli comanda.
Ecco dunque che, considerato l’andamento del governo Meloni e lo scadenzario elettorale dei prossimi anni, Conte ha intenzione ad avere tutt’altro atteggiamento, verso il Pd, rispetto al 2019: «La nostra responsabilità deve essere costruire un progetto di governo per reale affinità di temi, di programmi», dice. Addirittura: allo stato l’opposizione non riesce a trovare un accordo nemmeno sui candidati in Piemonte e Basilicata, si intuisce quanto possa essere a portata di mano un progetto di governo.
Ma Conte, col suo 16 per cento alle ultime politiche e il proporzionale all’orizzonte nelle europee di giugno, sostiene che sia costato troppo caro al Movimento prendere parte a tre governi su tre della scorsa legislatura. Perché «siamo stati fraintesi dai cittadini», spiega l’ex premier, che arriva a sostenere: «A gestire il potere non siamo bravi». La vocazione originaria dei grillini, a suo dire, sarebbe opposta: «Siamo qui per cambiare il Paese». Affermazioni difficili da sostenere, a questo punto. Tanto più da parte dell’uomo che nella sua carriera politica ha prevalentemente gestito potere, ai livelli più alti. E che adesso invece quando parla di coalizione esprime concetti alati: si dice interessato «alla traiettoria» a costruire «l’alternativa seriamente», «passo dopo passo». Sono poi le stesse parole che usa per dilazionare l’accordo su Basilicata e Piemonte: mentre per la aspirante governatrice Sardegna la sintesi si è trovata subito, addirittura a novembre, ma sulla grillina Alessandra Todde. Nulla fa pensare che, a livello nazionale, Conte intenda utilizzare leve diverse. Ecco perché Schlein ha chiuso la fase zen. O almeno l'ha messa in pausa.