Serve qualcuno in grado di indicare un traguardo che non sia solo buttare giù dalla torre l'attuale presidente del Consiglio. Ragionare di alleanze non è abbastanza

È davvero imbattibile Giorgia Meloni? Il deludente risultato della partita abruzzese – nella quale tutta l’opposizione aveva riposto le sue speranze di battere Giorgia Meloni – costringe gli elettori di quello che noi chiamiamo per comodità centrosinistra a porsi questa domanda. La risposta ovviamente è no, perché in una libera democrazia nessuno è imbattibile: prima o poi arriva per tutti il momento di uscire di scena, anche per uomini che con le loro vittorie elettorali hanno segnato la storia della Repubblica, da Alcide De Gasperi a Silvio Berlusconi. Si tratta solo di vedere quando. Ebbene, le urne abruzzesi ci dicono che nel grafico del consenso la curva della premier non è in calo. Non ancora. Toccherà aspettare le Europee dell’8-9 giugno per avere un dato nazionale, ma la vittoria di Marco Marsilio detto «Il Lungo» – l’uomo che nel 1992 aprì la porta della sezione missina della Garbatella a quella quindicenne che sarebbe diventata presidente del Consiglio – conferma che la luna di miele del governo Meloni non è finita. Il governatore ha ampiamente superato il suo risultato di cinque anni fa (53,5 contro 44,9 per cento) e Fratelli d’Italia è ancora una volta il partito più votato.

 

Che cosa serve, allora, per battere la premier? L’alleanza non basta. Il campo largo, l’asse tra Pd e M5S sul quale Elly Schlein ha scommesso tutto, ha funzionato miracolosamente solo in Sardegna – dove il centrodestra è riuscito a perdere la partita del governatore avendo vinto quella dei voti di lista – ma ha fallito in Abruzzo, dove il campo larghissimo ha perso otto punti rispetto alla somma di quei partiti nel 2019. E non basta neanche il programma, sul quale ha finora insistito Giuseppe Conte rifiutando l’offerta di un’alleanza organica col Pd: prima si concorda un progetto, dice lui, e poi si sceglie il candidato (possibilmente non del Pd). Domenica scorsa neanche questo metodo ha funzionato, nonostante l’unanimità sul progetto.

 

La verità – una verità amara per gli elettori del centrosinistra – è che per vincere ci vuole un leader. La rapidissima ascesa di Giorgia Meloni ha dimostrato che un partito passa da 3 al 30 per cento non con le alleanze giuste o con un programma perfetto, ma grazie al carisma del suo capo (della sua capa, in questo caso). Del resto è sempre andata così, dalla fine della Dc in poi. Il Pci non sarebbe diventato il più forte partito comunista d’Occidente senza Enrico Berlinguer. Il Psi non avrebbe espugnato Palazzo Chigi senza Bettino Craxi. È solo grazie a Silvio Berlusconi che il centrodestra ha governato per anni (ed è grazie a Romano Prodi se il centrosinistra lo ha battuto due volte). Così come il Pd e la Lega non sarebbero riusciti a superare rispettivamente il 40 e il 30 per cento se non fossero stati guidati da Matteo Renzi e Matteo Salvini, prima che per entrambi cominciasse la parabola discendente.

 

Al centrosinistra serve dunque un leader. Un uomo (o una donna) capace di scaldare i cuori. Di parlare al suo elettorato con un linguaggio efficace. Di chiamare tutti a raccolta per una battaglia che valga la pena di essere combattuta. Di indicare un traguardo che non sia solo buttare giù dalla torre Giorgia Meloni. Purtroppo questa figura carismatica oggi non c’è. Sul tavolo ci sono formule che si rivelano scatole vuote e ambizioni personali che si nutrono di trasformismo. Ma con il filo di fumo delle velleità non si tesse la bandiera di un leader.