Editoriale

I silenzi di Meloni al cospetto di al-Sisi: la verità su Giulio Regeni può aspettare

di Enrico Bellavia   25 marzo 2024

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Mentre le opposizioni litigano anche sulle regionali, la maggioranza ne approfitta per portare avanti il suo programma e fare accrdi internazionali in cui il tanto sbandierato "orgoglio italiano" viene riposto nel cassetto

La disastrosa gestione della partita elettorale sulla Basilicata da parte del centrosinistra, con l’incredibile giravolta calendiana, accasatosi sotto il candidato uscente di Forza Italia, Vito Bardi, offre già un pronostico per il 21 e il 22 aprile.

 

Dimenticato quanto di buono era venuto dalla Sardegna, archiviata la lezione della sconfitta abruzzese, la Basilicata si presentava come una sfida ardua ma possibile. Alla vigilia della danza cannibale intorno ai candidati il risultato pareva contendibile, adesso la prospettiva è compromessa. Un alto dirigente del Pd ammette sconsolato: «Gliel’abbiamo regalata a tavolino». E il copione, in una coazione a ripetere all’insegna del tafazzismo, rischia di riproporsi l’8 e il 9 di giugno quando con le Europee – oltre che, tra gli altri, a Firenze, Bari, Cagliari, Campobasso, Perugia e Potenza – si vota in Piemonte, dove Pd e M5S andranno divisi contro l’uscente forzista Alberto Cirio che cinque anni fa sfiorò il 50 per cento. Anche qui Calenda andrà dall’altra parte.

 

Al netto dei mal di pancia centristi, il nocciolo della questione restano i rapporti tra Dem e Cinquestelle.

 

Nella visione di Elly Schlein, alleati, di necessità, ma alleati. Nell’idea opportunista di Giuseppe Conte dei concorrenti. Certo non basta dirsi che si vuol battere la destra per stare assieme. Ma qui si gioca per molto meno, ovvero il potere di designazione e quindi di veto, sui candidati, magari anche perdenti nel recinto delle Regionali.

 

Un gioco al ribasso che mette in palio, nella migliore delle ipotesi, la leadership dentro l’area progressista per un tempo assai corto. Fino al voto europeo. Perché, se questo è l’andazzo e i sondaggi hanno ragione, Conte dovrà fare i conti con un movimento ridimensionato e un concorrente, come lo chiama lui, saldo nella sostanza ma lontano dall’imporsi come alternativa di governo.

 

Il logoramento della maggioranza di centrodestra con una Lega in caduta libera e un Salvini ormai fuori controllo sarebbe pure un’occasione per rilanciare un programma e trovarsi su un’agenda finora inchiodata al primo punto, quello del salario minimo e con numerose cancellature non irrilevanti in politica estera. E quanto sembrano lontani Gaza e il Donbass dalle miserie del nostro cortile di casa.

 

Nel quale pure la Corte costituzionale di urgenze ne ha indicate: il fine vita e la registrazione dei figli delle coppie omogenitoriali. Nulla che la destra voglia risolvere e neppure affrontare e che invece sarebbero battaglie identitarie di un centrosinistra autentico.

 

Come lo è la battaglia per la verità sulla morte sotto tortura di Giulio Regeni. Il processo è appena cominciato e non si riesce a recapitare l’avviso ai 27 testimoni egiziani individuati dall’accusa. Giorgia Meloni ne avrebbe potuto parlare con il presidente egiziano mentre staccava l’ennesimo assegno estero, dopo Albania e Tunisia, sulla pelle dei migranti. Anziché balbettare in favore di telecamere che la giustizia (italiana) farà il suo corso, omettendo di aggiungere che a spuntargli le armi sono le ragioni di una diplomazia piegata alle sue esigenze tattiche. Quelle di una premier che l’orgoglio di italianità lo sbandiera nei comizi e lo ripone in soffitta al cospetto di tutti gli autocrati, da Orbán ad al-Sisi, con cui brama di accordarsi.