La storia

I quarant'anni della Lega Nord: fondata da Umberto Bossi, affondata da Salvini

di Roberto Di Caro   12 aprile 2024

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Il 12 aprile del 1984 il Senatur creava il partito che avrebbe rivoluzionato il panorama politico italiano. Tra spinte autonomiste, rapporti di amore e odio con Silvio Berlusconi fino al suo triste tramonto: ecco la fine che ha fatto il Carroccio

La prima avvisaglia, un colore fuori posto, sono le tovagliette di carta sui tavoli alla festa della Lega in quel di Barzago nel lecchese, luglio 2017, con la scritta “Salvini premier” su fondo blu. Blu? Che fine ha fatto il verde Lega, quello del fiore delle Alpi, del simbolo, delle “camicie verdi” metà milizia metà servizio d'ordine della Lega di Umberto Bossi? Segretario da tre anni e mezzo, Matteo Salvini arriva in bermuda: folla plaudente, comizio su clandestini tasse negozi chiusi culle vuote. Ressa per i selfie fin dopo mezzanotte: «Vedi, è questo il mio vero lavoro, ti devono vedere, ti devono toccare», niente più distinzione tra corpo fisico e corpo mistico del Capo. All'una di notte, finalmente, l'intervista. E l'annuncio: «Cambio nome, resta “Lega”, via la parola “Nord”. Nuovo simbolo, lo stesso per tutta l'Italia, prima delle politiche previste a marzo». La “Lega per Salvini premier” nascerà ufficialmente il 14 dicembre, il resto è storia d'oggi: lo slittamento all'estrema destra, il Conte I con i 5 stelle, il Papeete e il sogno di “pieni poteri”, l'ottovolante elettorale dal 17 per cento al 34 all'8,79 delle ultime politiche. Per finire a ruota di Giorgia Meloni, contestato dai suoi e semicommissariato fino al Congresso.

 

A essere rottamata, con quell'annuncio sull'Espresso, è la Lega di Bossi, della quale il 12 aprile ricorrono i 40 anni dalla fondazione come Lega autonomista lombarda. Ribaltata nell'anima e nelle forme. Presto declassata a bad company dove annegare i debiti e la storia, i 49 milioni di euro di rimborsi elettorali truffati allo Stato, i miraggi di secessione del Senatùr, l'Italia sforbiciata in tre di Gianfranco Miglio il Profesùr. Eppure, prima di Mani pulite e di Berlusconi, era stata proprio quella Lega a scompaginare il panorama politico della Prima Repubblica: con il suo leader istrionico, le sue sparate machiste del “ce l'ha duro”, le sue giravolte imprevedibili anche per i suoi, il suo indubbio istinto per gli umori della parte di popolo nordista che non vedeva l'ora di sentire da un palco e da uno scranno in parlamento ciò che al bar mugugnava da anni.

 

Bossi on Gianfranco Miglio

 

IL POLITICO E L'ISTRIONE. Uno spettacolo, i comizi del primo Bossi. Parlava a braccio tre ore di fila, saltando da un registro all'altro: ieratico per le sparate contro la partitocrazia, le tasse, Roma ladrona; didascalico nei suoi interminabili spiegoni storici; spassoso in divagazioni e aneddoti, che un po' ricordava e un po' s'inventava. Poi, nella folla come un pesce nell'acqua, tirava notte a firmare tutto quello che gli mettevano davanti: libri, patenti, caschi da moto, t-shirt, maschi avambracci padani e il petto delle militanti più estroverse. Con simili tempistiche, l'intervista della vittoria alle politiche del '92, quando porta in parlamento 80 peones per molti dei quali Roma era come dire Addis Abeba, ti ritrovi a farla alle 2 di notte alla pizzeria O' sole mio, vicino alla vecchia sede della Lega in via Arbe, periferia nord di Milano. Spazio ai giovani!, lo incalza un ragazzo: «Prima mi organizzo per castagnare i rompiballe come te!». Adesso al governo!, lo esorta il cameriere egiziano, che lo ha votato: «Ma che governo d'Egitto, noi ribaltiamo lo Stato!»

 

Il populismo non l'ha escogitato Bossi, ma con lui è rinato e da allora è dilagato. Di carne e sangue, il suo, non di plastica come poi il Cav. E struttura da partito leninista, non di movimento come poi Grillo & Co. Per pescare consensi a sinistra s'inventa il Sal, Sindacato autonomista lombardo, dichiaratamente cinghia di trasmissione, a capo Rosi Mauro detta “la pantera” per il piglio tosto da salentina. Per rastrellare nel bacino di voti della Dc nasce la Consulta cattolica di Giuseppe Leoni, l'architetto col farfallino, l'unico altro leghista in parlamento già dall'87, presto espugnata dalla giovane Irene Pivetti. Croce di Vandea al collo, lefebvriana anticonciliare, i suoi rapporti con l'Umberto sono altalenanti e tempestosi: lei attacca il cardinal Martini arcivescovo di Milano, lui le dà della khomeinista e prova a murarla in stanza vietando qualsiasi visita, la chiami al telefono, lei scende giù come una furia, l'ukase viene ritirato. Lucciconi agli occhi del Capo quando, due anni dopo, verrà eletta presidente della Camera dei deputati. Altri due anni e la caccerà.

 

MARCIA SU ROMA E DINTORNI. Spregiudicato è dir poco, parlando di Bossi. Ottobre '92, settant'anni dalla Marcia su Roma. Toni da “discorso del bivacco”, che cita mimando senza sbagliare una virgola, potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli... «Se conquistassimo una dopo l'altra le Prefetture del Nord, i cittadini ci appoggerebbero: abbiamo una forza immensa, solo la nostra profonda convinzione democratica ce lo impedisce. Piuttosto è Agnelli che finanzia quei quattro morti di fame del Msi...». Non è che poi mi ritrovo una smentita, come Guido Passalacqua quando su Repubblica ha scritto “Bossi: mi alleo con Pci e Psi per mandare la Dc all'opposizione”? «Io mica ce li ho i soldi per fare sondaggi! Letto il pezzo, mi han telefonato in cento a dirmi “Ti s'è mat!”, così ho detto che aveva capito male, colpa sua, eh».

Politica creativa, un po' come la finanza del suo buon amico Giulio Tremonti. S'inventa la Padania, mai esistita nel lessico corrente, giusto in qualche testo specialistico. E il concorso Miss Padania, la squadra di calcio al mondiale dei popoli senza stato, la mistica del Dio Po, le sacre acque raccolte alla sorgente in un'ampolla: è un giallo quando sparisce, l'hanno rubata!, si scoprirà tempo dopo che un'ignara colf l'aveva cacciata via in cantina. Qualunque cosa uscisse dalla Lega era un articolo sui giornali. L'eau de toilette “Dur”, 30 mila lire al boccettino, della Consulta femminile del Carroccio capitanata da Sabina Negri, in guerra con l'intransigente Pivetti; le “leghe” al posto delle lire; e felpe, boxer, orologi, birra, francobolli, un merchandising da film di Batman, per autofinanziamento.  Salvo finire in Tangentopoli come un qualsiasi Mario Chiesa, 200 milioni di tangente Montedison in una valigetta passata attraverso un paio di mani, per cui Bossi e il tesoriere Alessandro Patelli verranno condannati.

 

Bossi a Pontida nel maggio 1992

 

IL PATTO COL DIAVOLO. La Lega dilaga in Veneto e Lombardia e prende Milano, sindaco il Marco Formentini che due anni dopo, piangendo come una fontana, sposerà Umberto Bossi e Manuela Marrone, cofondatrice della Lega. La Repubblica del Nord pare dietro l'angolo. Gianfranco Miglio, per trent'anni preside di Scienze politiche alla Cattolica di Milano, «tecnico delle istituzioni, come un fabbricante di cartucce che toccherà alla politica utilizzare», ne disegna l'architettura confederale: alla futura Unione italiana le sole competenze in politica estera, moneta e credito, tutto il resto alle tre repubbliche Padana, d'Etruria e del Sud, ciascuna con la sua Dieta e il suo Governatore eletti dal popolo, che nasceranno grazie a plebisciti per l'aggregazione tra Regioni già prevista nella Costituzione del '47.

 

L'aria però è cambiata. E il nuovo che avanza è Silvio Berlusconi. Forza Italia è ancora una “associazione per il buongoverno” (come partito nascerà a metà gennaio, il video della “discesa in campo” è del giorno 26) quando Miglio, nel dicembre '93, anticipa nei dettagli all'Espresso l'accordo appena raggiunto, in gran segreto, tra Lega e Forza Italia. Un'intesa «logistica», con i candidati bossiani egemoni al nord; fatta per evitare che il Cav. «erediti buona parte degli elettori leghisti»; senza escludere che «arrivi anche per Berlusconi il momento in cui gli si dovranno tagliare un po' le unghie». Quando in estate era venuto a trovarlo a Domaso sul lago di Como, Miglio gliel'aveva detto di non scendere in politica: «Lui però è testardo come quel ragazzino pestifero della réclame, “attento che ti sporchi il grembiulino”, lui non dà retta, e si ritrova tutto nero»: Calimero col grembiulino da piduista.

 

DAMMI QUALCHE MESE... Alle politiche di fine marzo '94 stravince, la bislacca doppia alleanza di Berlusconi con Bossi al nord e Fini al sud. Conferenza stampa nella sede nuova di zecca della Lega in via Bellerio, settemila metri quadri nella banlieue meneghina di nordovest. Ci incrociamo all'uscita, Bossi, Roberto Maroni e chi scrive. Bel casino hai combinato, adesso chi ci libera più da Berlusconi? «Non ti preoccupare, ci penso io, dammi qualche mese...». Maroni sbianca: ancora anni dopo ricorderà come solo in quel momento aveva capito che il Capo l'alleanza l'aveva fatta per fregare il concorrente, non per governare davvero con lui e i fasci. Sette mesi dall'insediamento, quattro giorni a Natale, Bossi fa cadere il governo. A Montecitorio, dall'alto degli spalti del pubblico, li vedevi contrarsi nella rabbia i muscoli del viso del presidente dimissionario mentre giurava: «Mai più con quel traditore, mai più!».

 

Lo psicodramma interno alla Lega s'è consumato la sera prima, al ristorante alle Grotte del teatro di Pompeo, dirottata altrove quasi l'intera stampa con un trucco. Tutti un po' sopra le righe, i 25 deputati e senatori governativi a oltranza, eccitati nel fare la storia come fossero a un parco giochi. Tutti tranne Bobo Maroni, al centro della tavolata. È cupo, incerto, parla poco e di malavoglia. La situazione è fluida: nel vaneggiare dei ribelli, lui è l'anti-Bossi per un governo Polo-bis, nei calcoli di Bossi lui è l'uomo che può evitare una scissione: qualche ora prima gli ha anche raccomandato di rimanere al suo posto di ministro degli Interni, con Previti alla Difesa non si sa mai che scherzi può fare il Berluskàz, come ormai lo chiama. 

Maroni non rompe, la Lega non si spacca, nasce il governo Dini. Ma il buon soldato Bobo la pagherà. Due mesi dopo, Congresso straordinario della Lega a Milano, resta per un eterno minuto in piedi in silenzio a prendersi del “traditore” dai delegati che gli lanciano monetine, prima che Bossi gli vada accanto e, una mano sulla spalla, dica ai suoi: «Perdoniamolo, è un bravo ragazzo...».

 

Bossi saluta i militanti

 

PARRICIDI. La nemesi arriverà nell'aprile 2012, la “notte delle scope” alla Fiera di Bergamo. “Pulizia, pulizia!” gridano i “barbari sognanti” di Maroni. Il leader vecchio e provato sale sul palco con le lacrime agli occhi. «Mi dispiace tanto che i danni siano stati fatti da chi porta il mio cognome, vi chiedo scusa, perdonatemi»: per i finanziamenti pubblici dirottati alla “family”, le beghe del figlio Renzo detto il Trota, i diamanti comprati in Tanzania dal tesoriere Francesco Belsito. Stavolta è lui, Maroni, a mettere infine il braccio sulla spalla dell'Umberto sconfitto: «Non meritava quel che è successo», la colpa è del “cerchio magico” che lo ha isolato, al rogo Rosi Mauro, «o si dimette o la caccio». E annuncia imperioso: «nuovo corso, nuove regole, subito i Congressi, largo ai giovani».

 

Come si è giunti a tanto? Tra il parricidio mancato del '94 e quello consumato nel 2012 c'è l'isolamento della Lega dopo la vittoria dell'Ulivo di Prodi nel '96; tre anni di secessionismo spinto, Parlamento del Nord a Mantova con destra centro sinistra e Salvini a capo dei “comunisti padani”; la pace ad Arcore con l'ex Berluskaiser e il rientro obbligato nel centrodestra vincente nel 2001. Ma ormai l'epopea è finita. Quando il centrosinistra, col suo proverbiale tempismo, vara la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione per inseguire il federalismo bossiano, la Lega è già marginale: vale il 4 per cento scarso, meno del 5 nel 2006, l'8 nel 2008 in cui il Popolo delle libertà fa man bassa col 37. Il partito è allo sbando, “la Padania” quotidiano chiude fra i debiti, il “sacro prato” di Pontida è ogni anno meno affollato. Maroni da segretario durerà un anno e mezzo: eletto presidente della Lombardia, lascia il partito a Salvini. I due ci mettono poco a litigare: «Io, leninista convinto, non avrei mai pensato di essere trattato in modo sprezzante da un leader stalinista», è il lamento di Bobo. 

 

CHI SCENDE E CHI SALE. Tutta la storia della Lega, del resto, è costellata di espulsioni e abbandoni: dal Castellazzi numero 2 delle origini fino a Pivetti, Franco Rocchetta e Marilena Marin fondatori della Liga Veneta quando Bossi portava ancora i pantaloni corti, Formentini, lo stesso Miglio, Tosi, tre o quattro ex-ministri, una lista lunghissima. Unici imperituri, tuttora sui banchi del governo, Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli. Schivo e defilato il primo, esuberante e sanguigno il secondo, entrambi inossidabili: vuoi per le competenze specifiche, uno in economia l'altro in meccanismi e cavilli legislativi (a dispetto della “porcata” della sua legge elettorale, definizione sua), vuoi per una scafata capacità di adattarsi con disincanto a ogni scombussolamento; per dire, nella stagione ultrasecessionista, in privato Calderoli se ne usciva con «Sappiamo entrambi che la secessione è una fesseria, vero?».

 

Corsi e ricorsi, fin da quando anche Robespierre finì sulla ghigliottina, pare che ora a rischiare il collo sia Matteo Salvini. A Bergamo e altrove hanno di nuovo issato le scope e istoriato cartelli contro il suo “cerchio magico”. In molti tirano per la giacca Luca Zaia, che senza terzo mandato dovrà lasciare la Regione Veneto. Già in forte attrito con il signore delle felpe e del Ponte sullo Stretto, dovesse decidersi, la partita sarebbe per lui tutta da giocare.