La sconfitta in Basilicata e i passi falsi su liste e simbolo suonano come un presagio per il futuro

Forse non l’hanno vista arrivare, ma adesso che c’è, regolano i conti. E per lei che non si era mai illusa che fosse facile, la faccenda si è complicata molto. Se non siamo all’ultimo gong, il preavviso lucano, ennesima sconfitta di un progetto immaginario, ci manca poco. Inutile girarci intorno: Elly Schlein, promessa salvifica in un partito depresso, ha consumato molte energie e sperperato parecchie chance. Ha sottovalutato l’apparato, il corpaccione correntizio che tutto metabolizza tra intese, sotterfugi e sgambetti. In extremis, nel balletto della composizione delle liste, ha tentato i suoi accordi e quando li ha visti polverizzarsi sotto il tiro incrociato e le pretese dei big, ha dovuto battere in ritirata. 

 

Un ripiegamento imbarazzante, con la formula del messaggio social che fa tanto disintermediazione protetta. Circondata da consiglieri non proprio disinteressati, sta cucinando così al fuoco lento della delegittimazione. Trovandosi leader con la leadership compromessa.

 

Candidata in due circoscrizioni per Bruxelles ma già rinunciataria, si appende, pur negandolo, alla soglia percentuale che alle prossime Europee potrebbe darle quello zero virgola per cercare di restare in sella. Anche in assenza di un progetto chiaro, credibile e autenticamente alternativo.

 

Quello che hanno chiamato campo largo, provando ad assemblare composti diversi, è franato sotto la legge implacabile dei numeri. L’alleanza Pd-M5S ha al suo attivo solo la vittoria di misura in Sardegna. Il resto è una catena di sconfitte annunciate. La Basilicata, preconizzava un dirigente del partito, era stata consegnata all’avversario a tavolino, dopo la girandola di veti che aveva bruciato candidati su candidati. 

 

Ma soprattutto, ha dimostrato che la corsa al centro, fuori e dentro lo stesso partito, è un esercizio stantio e quasi sempre, alla lunga, perdente, soprattutto se in abbinata con la rincorsa di un partner, il Movimento di Giuseppe Conte, che non ha alcuna intenzione di rassegnarsi alla subalternità delle percentuali vorticosamente al ribasso. L’avvocato pugliese, anzi, non perde occasione di dare spallate, in un continuo, poco credibile, richiamo alle origini, nella speranza che questo riconquisti i delusi e gli consegni un campo sì, ma di macerie.

 

Azione e Italia Viva, a Potenza, stavano dall’altra parte, dimostrando così una volatilità di convinzioni che in Italia regala l’ebbrezza quasi sempre effimera di sentirsi aghi della bilancia, capitalizzando compromessi non sempre edificanti.

 

Poi, ma non ultimi, ci sono gli scandali, gli arresti in Puglia e in Piemonte, e le colpe passate che tornano, come l’aver aperto le porte a chiunque, per esempio in Sicilia, nell’eterna tentazione di costituire il balsamo purificatore per signori delle tessere, intrallazzatori e ras del voto. Le scorie di ciò che è stato, e in parte è, sono ancora lì. Conteranno e contamineranno la stagione presente.

 

Se l’ossessione è vincere a qualunque costo, non riesci a distinguere ciò che è necessario da ciò che deve essere buttato via. Magari, accantonando l’idea di un’investitura ante litteram da premierato di fatto e concentrandosi, invece, su un’opposizione parlamentare fattiva che vada dritta al merito dei guasti di governo, tanti – dalla sanità alla giustizia, dall’informazione alla politica estera. Per questo, il passo falso della sortita di mettere il proprio nome sul simbolo non è un trascurabile momento di stordimento dal quale la segretaria si è ripresa. Ma il pericoloso indizio di una tentazione di risolvere le cose con una mossa disperata, scimmiottando maldestramente esempi altrui. Non proprio da imitare.