La nostra storia

La tomba, il corpo, la coerenza: perché Giacomo Matteotti non va dimenticato

di Concetto Vecchio   5 maggio 2024

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Uno scrittore sulle orme del segretario del Partito Socialista Unitario ucciso dai fascisti nel 1924. Il sarcofago in un cimitero di campagna vicino a Rovigo, il rapimento e l'omicidio

Il testo è tratto da “Io vi accuso. Giacomo Matteotti e noi” (Utet, pp. 240, € 19)

Un libro è sempre una ricerca, di sé anzitutto. E anche questo non fa eccezione. Sto cercando un segno e allo stesso tempo intendo lasciarlo. Il centro abitato di Villamarzana spezza la monotonia della strada dritta. Matteotti vi è stato anche sindaco. Una scolaresca delle elementari si è radunata in piazza, per un po’ mi soffermo a osservare i bambini ascoltare la spiegazione delle maestre. Il 15 ottobre 1944 i fascisti uccisero quarantatré cittadini. Si erano ribellati anche in nome di Matteotti, la cui figura volgeva già nel mito. Sulla facciata del municipio una lapide lo ricorda, una delle tante che punteggiano il territorio e che nessuno legge.

Poi, sul rettilineo, in mezzo alla campagna, si schiude il cimitero di Fratta Polesine. Sono arrivato. Percorro il vialetto costeggiato di croci e lapidi, alla cui fine, in posizione centrale, si erge una grande cappella intonacata di un grigio chiaro: famiglia Matteotti c’è scritto in alto. Sono l’unico visitatore questa mattina. Giacomo Matteotti riposa nella solitudine autunnale. Trovo aperta la porta. La bara è collocata al centro di un piccolo spazio. Un sarcofago di marmo nero con la scritta del nome in caratteri di bronzo. Venne donato dagli operai di Bruxelles, che lo avevano incontrato poco prima del delitto nel corso di una riunione dell’Internazionale socialista. Ora qualcuno l’ha coperto con le bandiere dell’Italia e dell’Europa. E proprio i vessilli, nel contrasto con lo scuro della bara, rendono il luogo come colorato, come allegro.

Ne sono abbagliato.

Mi fermo sulla soglia per non calpestare i garofani sistemati ai piedi del sarcofago, raccolgo da terra i biglietti lasciati tempo fa da alcuni visitatori. «Caro Giacomo», c’è scritto su una busta. Come se fosse un amico ancora in vita.

Le bandiere, i fiori, i biglietti, il sole che illumina potente l’interno, fanno di questo mausoleo un luogo vivificato da un caldo spirito.

Uao, penso.

È proprio ciò di cui avevo bisogno.

Matteotti giace qui dall’11 ottobre 1928. Vi giunse dopo peripezie, traslochi, trafugamenti, trattato come un appestato. Ucciso il 10 giugno 1924 sul lungotevere a Roma il suo corpo era stato trovato soltanto due mesi dopo, in un bosco alla Quartarella, nel comune di Riano, a venti chilometri dal luogo dell’omicidio. Ridotto a uno scheletro. Le carni divorate dai cani e dagli animali selvatici. Il medico lo identificò dalla dentatura.

Nemmeno dopo questo strazio la sua sorte fu più dignitosa. Inizialmente finì tumulato nella cappella di Giuseppe Trevisan, l’amministratore dei beni della famiglia Matteotti, messo lì per non dare troppo nell’occhio, reso anonimo e quindi non attaccabile dai fascisti. Anche il suo fantasma suscitava istinti demolitori. Un anno dopo la sepoltura Trevisan chiese alla signora Isabella di trasferirlo in un sepolcro dismesso. I fascisti lo avevano minacciato di devastargli la cappella, che ospitava anche le spoglie del figlio, morto bambino. Spaventato, cedette. Matteotti quindi finì dentro un loculo camuffato, per evitare che i fascisti lo potessero trovare e profanare, la madre assistette in lacrime a quell’umiliante spostamento, le parve l’ultimo sfregio, tra i singhiozzi urlò: «Governo assassino».

Poi il regime cominciò a temerne il fascino. Si diffuse la preoccupazione che la tomba potesse finire all’estero, in mano agli esuli antifascisti, esibita come un trofeo o meta di un pellegrinaggio laico. Si escogitò allora la soluzione della cappella dei Matteotti. Isabella Garzarolo la ottenne a patto di costruire a sue spese la nuova camera mortuaria comunale. Una volta edificata il prefetto di Rovigo ordinò però la cementificazione del sarcofago, che così fu reso inamovibile, impedendo ogni possibile trafugamento del corpo. Era prigioniero anche da morto.

Sto capendo più cose stando al cimitero che nei tanti libri letti o sfogliati finora. Adesso mi è chiaro che bisogna partire dal corpo. Di un uomo che ha combattuto e che è stato combattuto. Conteso. Diverso. Mai popolare. Come definirlo se non un antitaliano, per educazione e postura civile. Questo mi ha indotto a raggiungere un piccolo cimitero di campagna. Il suo essere fuori dal coro. Il suo non parlare in latino. Antitaliano, mi piace.

Nel pomeriggio mi sposto a Ferrara. Lì, in una pasticceria alle spalle del Castello Estense, racconto di questa mia suggestione allo storico Giovanni Scirocco. Mi rivela un dettaglio che mi era sfuggito, e cioè che nell’ultimo discorso di Matteotti, alla Camera dei deputati, il 30 maggio 1924, il fascista Bramante Cuttini gli urlò: «Non parlare tu, che non sei italiano».

Come altri martiri civili Giacomo Matteotti era stato italianissimo, perché risiede nella contraddizione la vera cifra del carattere nazionale. Si era staccato dagli altri rimanendo fedele alla sua coerenza. Proprio questo mi attrae.

Quindi anche da morto disturbava i sonni dei gerarchi. Al punto che ordinarono di nasconderne la bara, fare in modo che non circolasse e si trasformasse in una bandiera. Matteotti doveva sparire. Lontano dagli sguardi e dalle menti, perché rappresentava la cattiva coscienza del Ventennio. Ma, come in quegli incubi che ci assalgono d’improvviso la notte e che poi fatichiamo a dimenticare, il suo fantasma affiorava ad ammonirli. Più veniva rimosso più il fantasma si faceva oscura minaccia. Perciò il suo esempio – un uomo di sinistra che ha sfidato Benito Mussolini e che ha pagato con la vita – ci interpella anche adesso.

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