L'intervista
Ida Teresi (Anm): «Separato dai giudici, il pm sarà succube della politica»
La magistrata per un decennio alla direzione distrettuale antimafia di Napoli ed esponente dell'Associazione nazionale magistrati spiega cosa c'è di grave nella riforma della giustizia del ministro Nordio: «Si indebolisce anche il controllo di legalità»
Proponiamo la versione estesa dell'intervista alla dottoressa Ida Teresi, magistrata ed esponente dell'Anm, pubblicata nel numero in edicola il 12 luglio 2024.
Ida Teresi è una magistrata di esperienza nella lotta alla criminalità organizzata e nei reati economico-finanziari e contro la pubblica amministrazione. Ha in carriera già un decennio alla direzione distrettuale antimafia di Napoli e un costante impegno con l’Associazione nazionale magistrati, e difatti ne presiede la giunta locale come esponente del gruppo AreaDG. Nel dibattito avviato dall’Espresso sulla riforma del ministro Carlo Nordio, aspramente contestata dall’Anm, l’avvocato Fabrizio Siggia è stato perentorio: «La separazione delle carriere è, a mio avviso, un passaggio obbligato per ristabilire l’equilibrio processuale tra le parti, che, forse, per colpa di pochi, risulta oggi fortemente compromesso a scapito del sacrosanto diritto al giusto processo e all’effettiva terzietà del giudicante».
Dottoressa Teresi, come si smonta la ferma posizione di Siggia?
«C’è confusione concettuale nelle posizioni di alcuni penalisti italiani: contraddizioni interne che non sarebbe rispettoso imputare a incompetenza tecnica e che dunque dobbiamo pensare siano dovute a una deriva ideologica che induce a ripetere slogan che manifestano la loro inconsistenza alla prova di un confronto ragionato e lucido. E le dichiarazioni da lei riferite lo dimostrano. Ad esempio, se il tema è l’equilibrio processuale è facile controbattere che il piano regolativo è quello del processo penale -cioè delle procedure- e non quello ordinamentale, che disciplina la figura del magistrato. Ancora, significativa è l’affermazione secondo la quale “per colpa di pochi” oggi sarebbero compromessi il giusto processo e la terzietà del giudice: a parte la discutibilità di una invettiva tanto generica e grave, osservo che a eventuali errori di singoli (da indicare e dimostrare) non si reagisce con stravolgimenti strutturali addirittura di rilievo costituzionale. Sarebbe come dire che a causa della corruzione di alcuni politici o pubblici funzionari riformiamo funditus dal punto di vista ordinamentale il Parlamento o l’apparato della pubblica amministrazione italiana, locale o centrale. In realtà il fulcro delle motivazioni dei penalisti ruota attorno alla generalizzante e offensiva critica rivolta non verso i pubblici ministeri ma verso la professionalità e l’indipendenza dei giudici italiani, che sarebbero incapaci di fare il loro mestiere, decidere con imparzialità. Non si comprende allora perché intervenire sui pm: per di più per peggiorarne lo statuto, formalizzandone una politicizzazione che abbiamo sempre ritenuto patologica e pericolosa, e legittimandone una deriva corporativistica che porrebbe il pm in una posizione di strapotere sugli stessi avvocati oltre che su quei giudici che sarebbero oggi appiattiti sul pm. Una vera e propria eterogenesi dei fini, con un indebolimento della terzietà del giudice e una assente ponderazione dei rischi di deriva illiberale paradossalmente avallata da chi si dichiara (ed è storicamente) espressione di una categoria intrisa di valori democratici e che esercita una fondamentale funzione di tutela della libertà del cittadino. Né è vero che l’unità della giurisdizione introdotta con la Costituzione repubblicana si fondasse sul rito inquisitorio allora vigente e che ora non sarebbe più giustificata: l’esigenza era evitare in futuro le storture e le tragedie del controllo dell’esecutivo sulla magistratura inquirente esercitato durante la dittatura. Pure dire che il rito accusatorio “vuole” necessariamente il pm separato è un falso storico: non esiste al mondo un unico modello di rito accusatorio né di statuto del pubblico ministero; e c’è una chiara spinta delle Corti internazionali verso un accrescimento della indipendenza del pm in tutti i riti accusatori».
Lo stesso Siggia ha aggiunto che «seguire la carriera da requirente piuttosto che da giudicante equivale a mantenere una univoca impostazione, senza che, nel cambio di funzioni, possa residuare quella forma mentis accusatoria che, spesso, contraddistingue i pubblici ministeri, i quali, in una sorta di passaggio tra porte comunicanti, possono essere sia giudicanti sia requirenti». Questa sembra la convinzione più o meno esplicitata del governo, il sottotesto di ogni testo normativo o semplicemente politico. Un errore?
«A parte che è noto che il cambio di funzioni oggi è talmente restrittivo da ridursi a poche decine di casi a fronte di un organico della magistratura di più di 9.000 magistrati, cosa che saprà anche l’avvocato e che dimostra l’inconsistenza dell’argomento, osservo che è complicato rispondere in maniera tecnica a chi parla di forma mentis nel senso di ottuso pregiudizio. Non conosco la base antropologica, gli studi sociali o di psicologia umana che ne costituiscono il fondamento. Altra cosa è la formazione culturale unitaria di giudici e pm, che la riforma vuole annullare e che noi vorremmo preservare come valore prezioso in funzione di tutela del cittadino poichè garantisce un pm “giudice”, parte imparziale in quanto pubblica, impegnato nell’accertamento della verità e non nel raggiungimento di un risultato. Capace di dirigere con rispetto la polizia giudiziaria ma mantenendo il necessario distacco, funzionale e culturale, da organi che hanno inevitabilmente diversa formazione e differenti obiettivi: non per nulla le forze dell’ordine sono tutte sottoposte ai ministeri. E’ questo che intendiamo dire quando contrastiamo il pericolo di un pm “super poliziotto”, protetto e diretto dalla politica e culturalmente intriso di logiche securitarie e non giurisdizionali».
Perché a suo avviso i governi di centrodestra cominciano a voler riformare la giustizia partendo sempre dalla separazione delle carriere.
«Prescindo dal colore politico. Osservo che intervenire sull’autonomia del pm realizza una ingerenza della politica su chi fa le indagini che si traduce in una ingerenza sulla giurisdizione nel suo insieme. Al giudice arriva ciò che il pm ricostruisce e propone attraverso l’esercizio dell’azione penale: controllare il pm vuol dire di fatto controllare i giudici con uno sbilanciamento dell’equilibrio costituzionale in favore dell’esecutivo che contrasta con un principio basilare delle moderne democrazie liberali. Quello che recenti studi internazionali definiscono “impacchettamento delle Corti”: una compressione dell’autonomia e della indipendenza della magistratura che riduce il controllo di legalità».
C’è davvero la volontà del governo, seppur smentita, di controllare l’operato e minare l’autonomia dei magistrati e soprattutto, a prescindere dalla volontà, il decreto va in questa direzione?
«Esatto, prescindo dalle intenzioni e valuto i fatti: la separazione delle carriere comporta indefettibilmente l’attrazione del pm sotto il potere esecutivo, come dimostrato dalla storia e dall’attualità; e si traduce in un potere di indirizzo politico sull’organo che fa le indagini a discapito dell’uguaglianza dei cittadini e a detrimento dei loro diritti di fronte al potere. Non esiste alternativa, in nessuna epoca e a nessuna latitudine: il pm o è autonomo e indipendente, inserito nella giurisdizione e parte pubblica imparziale, o è sottoposto alla maggioranza di governo, e dunque parte parziale. Gli altri Paesi guardano a noi come a un modello virtuoso; noi abbiamo deciso di fare un passo indietro: il pm era sottoposto al Ministro durante la monarchia e sotto il regime fascista».
In che modo, esaminando il testo di riforma, l’esecutivo potrebbe condizionare l’attività del magistrato?
«In primo luogo, come detto, sottraendolo alla formazione e alla carriera comune con i giudici, e dunque alla indipendenza di cui quelli godono. Inoltre, istituendo due CSM, uno per i pm e l’altro per i giudici, nei quali viene anche aumentato il peso della componente espressione della politica e viene abolito il diritto di elettorato attivo e passivo soltanto per i magistrati, scelti attraverso il sorteggio: anche così si alimenta l’interferenza. Ancora, sottraendo al CSM il potere disciplinare mediante la costituzione di un’Alta Corte, composta poi da soli cassazionisti: un ritorno alla magistratura verticistica del secolo scorso, e una Corte che non garantisce pluralismo e indipendenza e soprattutto non è necessaria poiché l’attuale sistema disciplinare assegnato al CSM funziona benissimo, dati alla mano. Il vero obbiettivo è allora trasmettere un messaggio intimidatorio a chi sia più coraggioso e incline ad esercitare il controllo di legalità anche verso il potere; e indurre comportamenti difensivi».
Come potrebbe spiegare a un cittadino i pericoli della riforma Nordio?
«Indebolire il controllo di legalità significa indebolire la possibilità di garantire l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e tutelare i diritti a prescindere dai desiderata della maggioranza di governo. Il disegno si chiude con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio: il ladro di generi alimentari al supermercato o il piccolo spacciatore di marjuana andranno in galera; chi saccheggia il denaro pubblico e lede il diritto dei cittadini a servizi essenziali efficienti abusando del suo potere resterà impunito. Con un grande favore anche alla criminalità organizzata, che ha sempre largamente contato suoi favori dei pubblici ufficiali infedeli. Non è senza significato che alcuni illustri avvocati sostenitori della riforma affermino che così non accadrà più quanto successo con “mani pulite”: il potere pubblico vuole impunità».
Crede che il governo aumenti la sfiducia popolare nei confronti della magistratura?
«Anche in questo caso poco conta quello che credo: i fatti dimostrano una organizzata e ripetuta operazione di denigrazione. Una narrazione fondata sulla mistificazione della realtà proveniente da chi ha maggiore accesso ai mezzi di comunicazione di massa e che probabilmente ha una limitata consapevolezza della gravità dei possibili effetti, poichè l’offesa reiterata a una istituzione o a singoli suoi esponenti ne produce l’indebolimento in termini di autorevolezza. Potrebbero saltare i fondamenti dello Stato di diritto qualora ad esempio un cittadino condannato decidesse che una sentenza non vada rispettata, che o una Corte meriti di essere aggredita o insultata».
Siccome c’è molto da aggiustare pure nel sistema giudiziario, da che punto si dovrebbe muoversi?
«In primo luogo, bisognerebbe migliorare l’efficienza, che davvero importa al cittadino ma che non pare interessare molto a coloro i quali dovrebbero garantirla assicurando risorse umane e materiali e leggi con procedure snelle e razionali. La situazione del personale amministrativo è disastrosa e le infrastrutture informatiche e tecnologiche sono completamente inadeguate; per non parlare della incongruità di un rito penale farraginoso e irrazionale, e di troppe e inutili norme incriminatrici: occorrerebbe una seria depenalizzazione per perseguire ciò che davvero merita sanzione penale lasciando alla regolamentazione amministrativa ciò che le spetta e che invece delegato impropriamente al penale. Sarebbe auspicabile una seria assunzione di responsabilità da parte del decisore politico».