Fortezza Europa

La guerra, il deserto, le violenze: la fuga disperata dei migranti che spesso porta solo a una fossa comune

di Antonella Napoli da Sfax (Tunisia)   30 luglio 2024

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Dall’Africa subsahariana al Mediterraneo, in fuga da conflitti e da crisi. Nel mezzo, il caldo, la sete, la fame e gli abusi dei trafficanti. Poi, al confine libico-tunisino, le torture delle forze di polizia. Viaggio nel cuore di un inferno che il nostro governo non vuole vedere

Ras Ajdir, confine libico-tunisino, snodo di transito dei migranti che le autorità della Tunisia deportano in Libia lungo rotte discrete: da Ben Gardane, più al Nord, e da Dehiba a Nalut, molto più a Sud. Distese infinite di sabbia e sole a picco che ferisce gli occhi con i suoi raggi infuocati. Percorsi lungo il deserto che rappresentano la fine di ogni speranza per una moltitudine di disperati provenienti dall’Africa subsahariana che provano ad attraversare il Sahara, che si estende per chilometri tra alte dune e depressioni saline, asciutte per la gran parte dell’anno. Un’area inospitale e ostile, dove spesso il vento solleva la sabbia fino a coprire il cielo, che continua a essere battuta da decine di mezzi al giorno di organizzazioni criminali, le quali non hanno mai interrotto i loro traffici illegali di «carichi umani».

 

Contrariamente a quanto dichiarato dalle autorità tunisine e libiche, e dato per acquisito dal governo italiano, le «piste» – che dovrebbero essere «chiuse» grazie agli accordi finanziati a suon di milioni di euro sia dall’Italia sia dall’Europa – vengono attraversate quotidianamente da chi prova a raggiungere le coste del Mediterraneo per lasciare il continente africano. 

 

Intese che la premier Giorgia Meloni, affiancata dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, vuole intensificare, come annunciato a Tripoli durante il Trans-Mediterranean Migration Forum, chiedendo al primo ministro Abdul Hamid Dabaiba di «combattere insieme la tratta di esseri umani» e confermando l’approccio nella gestione dei flussi migratori proposto dall’Italia al recente G7 e con il “Piano Mattei”. Chiara e netta la risposta del governo di unità nazionale libico: «Vogliamo più finanziamenti, i migranti qui sono troppi».

 

Soldi – denunciano le ong che si occupano di diritti umani – che servono per tenere in piedi lager dove «vengono perpetrate violazioni come torture, violenze, crimini contro l’umanità e riduzione in schiavitù, su cui l’Italia e l’Unione europea chiudono volentieri un occhio», commenta Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci. 

 

E così, dopo essere sopravvissute a guerre e crisi umanitarie devastanti, migliaia di persone perdono la vita non solo per la pericolosità del lungo viaggio, con temperature che raggiungono i 50 gradi, o per mano di coloro a cui si affidano per «un passaggio sicuro». Sono numerose, infatti, le testimonianze di sopravvissuti che sostengono che siano anche le stesse forze di sicurezza e di polizia di frontiera a causare la morte di coloro ai quali, per mandato, devono impedire di arrivare in Europa. A qualunque costo.

 

Negli ultimi dieci anni, secondo l’Organizzazione mondiale delle Migrazioni, circa 65 mila tra donne, uomini e bambini sono morti durante i «viaggi della speranza». Almeno la metà nell’attraversamento del deserto. In media, ogni anno dal 2014 a oggi, hanno perso la vita 4.000 persone. Nel 2023, il numero è raddoppiato.

 

A testimoniare l’orrore che si consuma nelle lande desertiche del Sahara, anche l’Ufficio per i Diritti umani delle Nazioni Unite. Il direttore Volker Türk ha denunciato la scoperta di alcune fosse comuni lungo il confine libico-tunisino. Nella prima, rinvenuta lo scorso marzo, c’erano almeno 65 corpi. Al momento sono in corso scavi in altri due siti. Türk ritiene che possa trattarsi di vittime di crimini perpetrati a cavallo della pericolosa rotta di transito.

 

Seguendo le orme dei migranti che si inoltrano nel deserto, è facile comprendere quanto il percorso di chi tenti di raggiungere le aree costiere sia una costante sfida per la sopravvivenza. Un tragitto duro e stancante per chi lo affronta in sicurezza su jeep attrezzate con aria condizionata, carburante, acqua e cibo a sufficienza, come chi scrive. 

 

Una traversata spesso mortale per chi viaggia ammassato in mezzi di fortuna e con pochi viveri. Nonostante sia intuibile che, posizionata sulla punta più a Nord dell’Africa, la Tunisia sia poco raggiungibile, la «nazione dei gelsomini» resta una delle principali mete degli africani in fuga, prede facili per i trafficanti che lucrano su quello che nella sostanza è poco più di un miraggio.

 

La pericolosità del viaggio, alla mercé di criminali senza scrupoli, per lo più algerini e libici che collaborano a stretto contatto con gli omologhi tunisini, non scoraggia chi è senza alternative. Come racconta Ibrahim Abu Mohamed, 25 anni, fuggito lo scorso gennaio dal suo Paese, il Sudan, perennemente in guerra: l’ultimo conflitto civile è deflagrato il 15 aprile del 2023. 

 

Per Ibrahim, scappare era l’unico modo per evitare l’arruolamento forzato. «Di un gruppo di sei persone sono l’unico sopravvissuto», sussurra con un filo di voce il giovane, accampato in una tendopoli vicino a Ras Ajdir, dove è bloccato da circa tre mesi con poco cibo e acqua forniti da alcune guardie di frontiera che impediscono a chiunque di entrare in Libia.

 

«Eravamo quattro maschi e due ragazze, abbiamo pagato due uomini che con una vecchia jeep ci hanno garantito la traversata del deserto fino a un posto sicuro. L’autista era sudanese, sembrava gentile e sincero, ci siamo fidati. Ha voluto subito i soldi. Ci hanno lasciati dopo quattro-cinque ore di viaggio in un’oasi di un’area desertica con una piccola pozza d’acqua, dicendoci che sarebbe arrivato un altro mezzo che ci avrebbe portati alla meta stabilita, un centro abitato. Ma non è mai venuto nessuno. Dopo avere passato lì una notte ci siamo incamminati su quella che sembrava una pista battuta, speravamo di incontrare qualcuno che ci aiutasse. Non è stato così. Ho perso i miei amici uno a uno. Io ero l’unico ancora vivo quando è arrivata una pattuglia di libici in perlustrazione nella zona», conclude Ibrahim con uno sguardo carico di disperazione.

 

«Tutta l’area di confine è un cul-de-sac. Sia per chi vuole provare ad arrivare a Sfax, città costiera della Tunisia, sia per chi viene cacciato dal Paese e deportato nel deserto», sostiene un portavoce del Forum tunisino per i Diritti economici e sociali (Ftdes), organizzazione non governativa locale che lo scorso 17 aprile ha manifestato davanti all’ambasciata d’Italia a Tunisi, in concomitanza con la visita della presidente del Consiglio italiana.

 

 Il Ftdes denuncia da tempo l’aggravarsi della situazione dei migranti nel Paese. L’organizzazione ha rilevato che «le loro condizioni di vita si sono rapidamente deteriorate dal luglio del 2023, quando la violenza contro centinaia di subsahariani accampati nella seconda più grande città tunisina ha raggiunto il picco». Uomini, donne e bambini sono stati espulsi dalla polizia e lasciati nel deserto. Da allora, le autorità di Tunisi hanno iniziato a perseguire non solo chi trasporti o aiuti gli immigrati clandestini, ma anche attivisti e avvocati.

 

L’inasprirsi della situazione al confine ha, però, prodotto l’effetto contrario, favorendo il proliferare dei trafficanti che gestiscono il transito illegale nel Paese del fronte algerino. Da fine aprile a inizio giugno, le forze di sicurezza tunisine hanno messo a segno varie operazioni di sfollamento con l’aiuto dell’esercito. L’ultimo grande sgombero dalla città, snodo per le partenze verso l’Europa, ha visto il dispiegamento di blindati e agenti in assetto antisommossa che hanno arrestato una decina di «membri di un’organizzazione che trasportava e rivendeva ferro per la fabbricazione di barche destinate alle traversate verso le coste italiane», come sostengono gli investigatori locali che qualche settimana prima avevano già annunciato di avere sgominato un giro di viaggi “vip” dalla Tunisia a Marsala, in Sicilia. Gli scafisti in questione trasferivano gruppi di un massimo di 20 persone per ciascun transito, con un costo di 6.000 euro a passeggero. Quelli su imbarcazioni affollate e non in grado di navigare in sicurezza costano meno di 1.000 euro. Traversate senza alcuna garanzia di arrivare sani e salvi, per chi riesce a partire.

 

«Arrivato a Sfax con un trasportatore algerino, a cui avevo dato tutti i soldi che mi erano rimasti, sono stato avvicinato da alcuni ivoriani che mi hanno chiesto se avessi bisogno di un posto per dormire. Ovviamente ho detto di sì e mi hanno offerto di passare la notte con loro. La mattina dopo mi hanno trattenuto con la forza e mi hanno impedito di uscire. Volevano soldi per lasciarmi andare. Quando ho detto che non avevo denaro con me, mi hanno picchiato e mi hanno costretto a chiamare la mia famiglia, da cui hanno preteso 500 dollari. Se non volevano che fossi torturato, dovevano pagare subito», si sfoga Tidjane Tanoh, vivo grazie al fratello che, dalla Costa d’Avorio, ha inviato i soldi con un servizio money transfer.

 

Tidjane ce l’ha fatta, ma non tutti coloro che finiscono in questa rete di sequestratori senza scrupoli sono altrettanto “fortunati”. Sono centinaia le persone transitate per la Tunisia e “scomparse” dal gennaio di quest’anno. E, inevitabilmente, il pensiero va alle fosse comuni che continuano a spuntare luogo il confine libico-tunisino.