Politica
11 settembre, 2025Il taglio alle risorse, la spinta verso il privato, la continuità con Berlusconi. L’ex ministra attacca la linea del governo Meloni e dice: rilanciare si può, ribellarsi si deve
La sanità pubblica come battaglia politica, simbolo della nostra democrazia, pietra angolare di una visione di società opposta a quella individualistica della destra, anche per provare a vincere le elezioni. Rosy Bindi, ministra della Sanità dei governi Prodi I e D’Alema, della Famiglia (Prodi II) e presidente della commissione Antimafia, ha scritto “Una sanità uguale per tutti” (Solferino) per raccontare come era, è, e rischia di finire il sistema sanitario costruito dalla legge Anselmi del 1978. Perché pensa che vada rilanciato, non cambiato. E che possa essere una chiave di volta nel programma dell’alleanza progressista.
Bindi, vuol tornare a guidare la sanità?
«Neanche dipinta. Ho dato. E non si torna mai si rischia di far pensare che si è colpevoli di qualcosa»
Schlein definisce la sanità una «priorità assoluta». Condivide?
«Lo dico da anni, e la grande attenzione che sta dando il Pd va riconosciuta, è abbastanza una novità. Se siamo arrivati a questo punto, alla crisi di sistema, è prevalentemente responsabilità della destra che nel tempo ha fatto scelte che hanno pesato molto: penso al definanziamento, ma anche al blocco delle assunzioni deciso nel 2005. Ma è responsabilità anche di una certa disattenzione da parte del centrosinistra. Una sottovalutazione dei rischi, dell’importanza di questa dimensione per le persone, a volte scelte poco coerenti rispetto ai proclami. Penso al favore fiscale verso i fondi assicurativi, ai mancati interventi sulle specializzazioni universitarie, specie in settori come la medicina d’urgenza. Oggi li paghiamo col fenomeno dei gettonisti, perché magari non si trovano gli anestesisti. E tutti a chiedersi perché».
Nel libro le risposte si trovano: i tentativi di snaturare il Ssn, i limiti strutturali e quelli politici. La controriforma De Lorenzo e il Titolo V. L’inizio delle crepe, fino alla crisi di oggi: la spesa sanitaria, in rapporto al Pil, nel 2024 è scesa sotto i livelli del 2007.
Il vero rischio, adesso, è che non ci si ribelli a ciò che sta avvenendo. Al contrario del 1978, quando la politica fu costretta ad approvare la riforma perché la società la richiedeva, era una delle grandi battaglie di quegli anni. Oggi dovremmo ribellarci, ma non lo facciamo: sta scattando il meccanismo del “me la cavo da solo”. Alla fine si scoprirà che da soli non ce la si cava».
Secondo l’Istat nel 2023 il Ssn, finanziato con le nostre tasse, copre tre quarti della spesa sanitaria. Il restante quarto esce direttamente dalle nostre tasche. Gli italiani non se ne accorgono?
«Certo che se ne accorgono, si lamentano ma – ed è la grande avarizia di questa stagione, direbbe don Milani – anziché provvedere e battersi tutti insieme, ciascuno cerca la sua soluzione. Pagando, chi può. O con le mutue. O con i pacchetti di welfare aziendale. Insomma si rompe il vincolo solidaristico: ci sono sei milioni di italiani che non si curano. Ancora, come ha fatto questo governo, si va verso quel disegno che c’era nell’autonomia differenziata: non ce la facciamo ad assicurare una buona sanità con livelli uniformi in tutto il Paese, allora quelle regioni che possono se la assicurano e abbandonano le altre. È lo spirito del tempo: Meloni sa interpretarlo molto bene».
Lei dice che questo governo vuol fare delle mutue private «la seconda gamba» della sanità. Cita il presidente della Commissione affari sociali della Camera Zaffini: «L’obiettivo è raddoppiare gli iscritti a fon- di privati, da 14 a 30 milioni». È in continuità con Berlusconi?
«La sanità fa parte della continuità coi governi berlusconiani, insieme alla riforma della giustizia, della Costituzione, alla concezione delle tasse, al ponte sullo Stretto. In una cosa non c'è continuità: nell’atteggiamento verso i no vax. Basta riascoltare il discorso di insediamento di Meloni, quando assicura che non ci sarà costrizione verso alcuno. Ma lo si vedeva già nel caso Di Bella, nel 1997. Mentre Forza Italia, e le tv Fininvest, non credettero a questa illusione, An la capitanò. E oggi il presidente della Lombardia Fontana ha istituito una Commissione per cambiare la legge 833, dice che è arrivato il tempo. Mentre io penso che siamo a una crisi, ma non va cambiato il sistema, va rilanciato. C’è ancora la possibilità di farlo».
Lei cita i dati di Greenpeace Italia sul balzo degli utili delle imprese italiane di armi, per dimostrare che se si vuole i soldi si trovano.
«È una battaglia importante che la sinistra deve fare: non è una scelta tecnica, è una scelta di visione. Dietro c’è un modello di democrazia. Far leva su questo punto è fondamentale. Tra l’altro interrompe una sorta di subalternità del neoliberismo di sinistra rispetto al liberismo della destra. C’è stata su tanti fronti: la mancata battaglia per i finanziamenti, il nuovo Titolo V».
Quella riforma che lei ribattezza “federalismo dell’abbandono”.
«In quel momento c’era l’exploit leghista, dovevamo mostrare un volto federalista. Il risultato quale fu? Vinse il centrodestra. Io la votai a malincuore, non si fanno le riforme costituzionali a colpi di maggioranza. E sono anche pentita: passò per un solo voto. Ma la mia critica è su come abbiamo applicato la riforma, consentendo alle Regioni di prendersi una autonomia che non avevano. Con conseguenze gravi. Ad esempio, se tu permetti alla Lombardia di azzerare tutte le cure primarie, la medicina del territorio, poi ti ritrovi i tassi di mortalità che ci sono stati durante il Covid. L’autorevolezza di un ministro e di un governo doveva essere quella di impedirlo».
Se non vuol tornare ministra, perché l’appassiona la sanità?
«Ci soffro a vedere un Paese che rinuncia a una delle cose più preziose che avevamo costruito. Non conta quanti soldi hai, dove abiti, che lavoro fai, chi sono i tuoi amici: conti tu come persona. E a questo si provvede tutti insieme. Vuol dire anche il rilanciare le politiche pubbliche, in direzione opposta al processo di privatizzazione che è in atto».
Vede che qualcuno ce l’ha?
«Penso che il nucleo centrale dell’alleanza di centrosinistra, che in questi anni in maniera unitaria ha fatto opposizione al governo, non strizzando l’occhio a premierato o separazione delle carriere, debba fare l’asse portante. E resto dell’idea che ci voglia una gamba moderata».
Moderati vuol dire partito dei cattolici?
«No, oggi un partito dei cattolici non avrebbe più senso. E tanti cattolici sono più radicali di tanti non cattolici».
C’è chi ritiene che questo ruolo più moderato debba svolgerlo il Pd.
«La collocazione a sinistra del Pd è corretta, è la sua vocazione: un partito con cultura di governo, che riesce a tenere unite le anime della sinistra. Cultura di governo non significa declinare politiche di destra, come crede qualcuno. Poi, certo, occorre una forza che sia in grado di interpretare l’elettorato più moderato. Ho sempre detto che Ruffini dovrebbe svolgere questo ruolo, anche se ho visto che ora si sta occupando di lanciare le primarie di coalizione per il premierato».
Per molti è questo il problema: l’assenza di un federatore.
«Per me non è il principale: viene prima il progetto, l’alleanza. Quanto alla ricerca del federatore, sgombriamo il terreno: il punto vero riguarda il riconoscimento degli attuali leader come possibili presidenti del Consiglio».
Traduco: lo cercano quelli che non vedono Schlein a Palazzo Chigi?
«Fondamentalmente accade così. Ma bisognerebbe essere, intanto, più diretti e più rispettosi: la smettessero di dire che manca il federatore. Secondo: quando ci sarà un progetto politico chiaro, si troverà l’accordo sul candidato presidente. Ci sono mille criteri: il partito più grande, le primarie, una figura esterna scelta da tutti. Adesso la priorità è un’altra».
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