Politica
25 settembre, 2025Farmacisti, commercialisti, prefetti in pensione. Lontano da Roma, in Veneto, Puglia e Campania, l’alleanza di governo continua a discutere sui nomi dei candidati
Nei corridoi della politica l’hanno ormai soprannominata “tendenza d’Attis”: il riferimento può risultare oscuro (d’Attis chi?), ma il punto è esattamente questo. Da settimane, per non dire da mesi, il centrodestra tutto, dal trio Giorgia Meloni-Matteo Salvini-Antonio Tajani in giù, si dibatte come un cesto di serpenti nell’incapacità di accordarsi sul nome di un candidato alle regionali, non solo quando sul tavolo c’è un bottino vincente (il Veneto di Luca Zaia, cuore di tutto, di cui poi si dirà) ma persino quando si tratti di un Carneade da mandare al macero là dove la sconfitta appare scritta, come nel caso di Puglia e Campania.
È appunto il caso d’Attis, nel senso di Mauro d’Attis, 52 anni, brindisino, deputato e coordinatore regionale di Fi. Azzurro sin dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, quando ad appena 20 anni aveva un diploma tecnico commerciale e faceva il promotore assicurativo (si è laureato sedici anni dopo), primi passi negli anni in cui Raffaele Fitto era governatore forzista della Puglia, dopo una vita da politico politicante (consigliere comunale, assessore, eccetera, fino al Parlamento, dove ha depositato fra l’altro sette proposte di legge a prima firma, tra cui una per istituire l’albo dei sociologi e una per conferire alla città di Brindisi il titolo di «città già capitale d’Italia») d’Attis si autoespone invano – da due mesi – come candidato a perdere in Puglia. «Sono pronto, vengo dal territorio, conosco i dossier della regione», implorava già il 23 luglio dalle colonne del “Corriere del Mezzogiorno” in un’intervista la cui frase cult vale una profezia, un programma di governo: «Le battaglie che si perdono sono quelle che non si fanno». È in effetti abbastanza questa la linea di Giorgia Meloni, specie a livello di voti locali: basti ricordare l’immortale candidatura dell’avvocato amministrativista Enrico Michetti quando si trattò di perdere un comune di Roma che nel 2021 i Fratelli d’Italia potevano anche vincere (risultato da valutare: è andata a finire con il sindaco dem Roberto Gualtieri spalla a spalla alla premier davanti al Colosseo per le pastarelle a Domenica In e con l’ammiratore delle «meravijose» colonne romane, appena nominato nel cda della Fiumicino 3000 dal sindaco della cittadina laziale Mario Baccini).
Il fatto è che, a questo turno di Regionali, dopo ben tre anni di governo e di sondaggi stabili, il centrodestra di Giorgia Meloni si è trovato sorprendentemente privo di capacità di competere, cioè sia di proporre alternative interessanti là dove non può vincere, sia di mettere sul tavolo per lo meno un seducente schema di gioco politico tra alleati là dove non può perdere. Il rapporto tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia è talmente ingessato da essersi incagliato in un punto che persino la tradizionalmente litigiosa coalizione di centrosinistra è riuscita a sciogliere: la complessa successione al governatore ormai messo fuori gioco dal divieto di terzo mandato.
Quel compromesso non indolore che è riuscito alla segretaria del Pd Elly Schlein con Vincenzo De Luca e il capo del M5S Giuseppe Conte e non è ancora riuscito a Giorgia Meloni con Luca Zaia e il capo della Lega Matteo Salvini, avvitati sull’unico nome accettabile per il doge uscente (già a luglio ha indicato il vicesegretario del Carroccio Alberto Stefani) nonostante la notevole quantità di soluzioni possibili, al punto ormai da aspettare i risultati delle Marche per andare avanti.
Quanto al resto l’impressione, ovviamente paradossale, è che il centrodestra alle elezioni locali preferirebbe non partecipare. Tolti gli uscenti ricandidati per diritto divino e provata fedeltà (il fratello d’Italia Francesco Acquaroli nelle Marche, nonostante una gestione trasversalmente giudicata fiacca) o per reazione da velociraptor (Roberto Occhiuto in Calabria, rapidissimo a indire le elezioni anticipate un mese e mezzo dopo la notizia che era sotto indagine per concorso in corruzione), tolto l’unico volenteroso che l’ha finora spuntata (il sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi per la Toscana), il resto della trattativa si è perso in un guazzabuglio di “vertici decisivi” senza luce in fondo al tunnel.
Perché in sostanza, un gradino sotto il governo di Roma, a livello locale il centrodestra non c’è. Ci sono appetiti, faide, trasformismi sovrapposti, antichissime competizioni, come quella che da venticinque anni oppone silenziosamente Fitto al sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano e viceversa. Nulla che somigli a una spinta comune.
In Campania fino a pochi giorni fa sventolavano ancora ridacchiando l’intervista rilasciata il 14 agosto da Fulvio Martusciello a “QN” in cui l’uomo forte di Forza Italia, ritiratosi dalla possibile competizione dopo l’arresto per corruzione della sua assistente, giurava e spergiurava: «Non tiriamo fuori il candidato solo per ragioni tattiche, lo diremo il giorno stesso in cui si saprà la data del voto, fine agosto massimo inizio settembre». Ecco: siamo a fine settembre, la data si sa, è il 23 e 24 novembre. Il nome? «Fatemi sapere quando l’avete», ha detto Vincenzo De Luca martedì scorso, definendoli «una coalizione di sfrantummati».
Si è andati in alto mare soprattutto quando s’è capito che il governatore uscente non si sarebbe candidato da terzo incomodo rispetto al campo progressista, sottraendo voti al centro e aumentando le possibilità di vittoria per la destra. Da allora la lista dei papabili si è allungata a dismisura: il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, noto alle cronache nazionali soprattutto per quella legge ad personam sulla prescrizione che ha poi ripudiato (la cosiddetta “ex Cirielli”, appunto, o “Salva Previti”); il leghista Gianpiero Zinzi da Marcianise, figlio di Domenico, centrista nell’Udc e sottosegretario con Silvio Berlusconi; ma anche il coordinatore della Zes Giosy Romano, e Mara Carfagna, e l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e addirittura l’attuale titolare del Viminale Matteo Piantedosi – anche se non si è mai capito per quale motivo dovesse lasciare il ministero per andare a schiantarsi. Sempre più lunga anche quella della società civile: Antonio D’Amato, Costanzo Jannotti Pecci, l’ex rettore Guido Trombetti, poi in ultimo il rettore Matteo Lorito e, soprattutto, il prefetto di Napoli Michele di Bari prossimo alla pensione (aveva già rifiutato una candidatura in Puglia).
Nomi appetibili ma in certi casi più difficili da convogliare: sia perché il ruolo di perdente è poco attraente, sia perché, a vederla con gli occhi dei politici, il civico perdente, una volta divenuto consigliere regionale, occupa un posto che altrimenti poteva essere destinato a loro. E in questi tempi di Parlamento dimezzato ogni poltrona è preziosa più che mai (lo sanno bene in Puglia, dove stanno tentando di approvare una norma che istituisca il “consigliere supplente” di chi è nominato assessore, così da ampliare ancora i posti a disposizione).
La lista dei possibili candidati messi nel congelatore c’è anche in Puglia, anche se più breve: oltre all’ormai noto d’Attis, s’è parlato dell’avvocato leccese Andrea Caroppo, già Nuovo centrodestra e Lega, oggi deputato con Forza Italia, c’è poi il civico Angelo Annese, sindaco di Monopoli (ma dei civici s’è detto), e il sottosegretario e coordinatore di Fratelli d’Italia Marcello Gemmato.
Proprio Gemmato negli ultimi giorni si è esplicitamente proposto candidato: farmacista barese, padre almirantiano, noto per le sue tesi quasi negazioniste sul covid ma anche per l’abilità nel tutelare gli interessi della sua parte (anche professionale), nel corso dell’estate si è impegnato a far tornare a casa personaggi come Pippi Mellone, sindaco di Nardò, ex destra sociale già passato con Michele Emiliano ma oggi tornato all’ovile al grido: «Le coalizioni devono essere ariose». Ecco forse l’ariosità, una cifra però così lontana dal melonismo.
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