Fratelli d’Italia reclama la Regione Veneto. Il Presidente leghista, al terzo mandato, vuole restare dov’è. A soccorrerlo potrebbe arrivare un’inedita alleanza con il Pd

Sul motoscafo diretto in fondo al Canal Grande, a palazzo Ferro Fini dove ha sede il consiglio regionale del Veneto, il moto ondoso della politica agita i passeggeri. Il grosso degli imbarcati, composto dai due terzi di deputati regionali leghisti che non saranno rieletti, teme la débâcle. Il sogno è un’alleanza, inedita da queste parti, con il Pd per fermare i meloniani. Salviniani moderati e democrat non troppo bolscevichi potrebbero unirsi per sbarrare la strada a un candidato Fdi. Difficile ma non impossibile. In fondo, chi mugugna in motoscafo ha un dna segnato dai quindici anni di regno del liberal-forzista Giancarlo Galan e da altrettanti del suo successore verde pallido Luca Zaia. Perché da queste parti si vota prima l’uomo e poi il partito. Di mandati Zaia ne ha già fatti tre e mezzo e vuole a tutti i costi il quarto. Il primo soccorso rosso lo ha già ricevuto a livello nazionale dal sindaco di Milano Beppe Sala e dal suo collega napoletano Gaetano Manfredi, che è anche presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani. L’abitualmente cauto Zaia ha evocato addirittura lo scontro nel centrodestra, procurandosi l’accusa di affamato dal forzista Maurizio Gasparri.

 

Se questo è l’inizio, i mesi a venire saranno bollenti sia per la maggioranza al governo, sia per l’opposizione. Il Veneto è il grimaldello più potente per chi vuole scalzare la regola del doppio mandato. Più della Campania dove Vincenzo De Luca è da tempo ai ferri corti con la segreteria del Pd. La battaglia di Nord-Est può decidere le sorti della legislatura perché riguarda una regione economicamente trainante, anche se meno che in passato, e questo è parte del problema. È anche una battaglia con un insolito risvolto internazionale, visto che fra poco più di un anno saranno inaugurate le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. Ecco quindi qualche istruzione per l’uso e la comprensione della baruffa veneta.

 

Il Capitano e il Doge. Il tema della Lega, non da oggi, è che c’è un partito nazionale di lotta e di governo mentre in Veneto ci sarebbe una Lega diversa, più moderata nei toni, se non nelle politiche. La gestione senza troppe scosse di Zaia è stata premiata dal 76,8 per cento dei votanti nel settembre 2020 con quaranta seggi su cinquanta.

 

Il profilo cauto non ha impedito all’expr di discoteche di prendere posizioni eretiche. Per esempio, a favore della legge sul fine vita, peraltro bocciata dal Consiglio Regionale a gennaio 2024 anche grazie ai voti di qualche leghista e di qualche zaiano, oltre a Fi e a Fdi. L’ipotetico dualismo con il segretario Matteo Salvini non si è mai concretizzato in antagonismo. Né succederà adesso che la Lega è un partito a rischio di estinzione, addirittura minacciato di scalata da parte di un debuttante della politica come Roberto Vannacci. Proprio per questo il Veneto è la trincea del Piave visto che in Lombardia si voterà nel 2028.

 

La scelta di Zaia è chiara: vuole restare dov’è. Le alternative circolate per compensarne la presunta fame sono di scarsa attrattiva. È già stato ministro e non si è divertito. La presidenza di un’azienda pubblica, magari sottratta al tetto dei 240 mila euro annui di retribuzione, lo metterebbe in panchina. D’oro ma pur sempre panchina. Sindaco di Venezia dopo Luigi Brugnaro? Difficile anche questo. Sembra molto più attraente e certo più divertente la presidenza del Coni che Giovanni Malagò, altro artefice dei Giochi 2026, dovrà lasciare. 

 

Alleanza mantecata. Su un eventuale patto del baccalà con la Lega non ci sono posizioni ufficiali del Pd. Elly Schlein non sarebbe a favore. Ma in sede locale fra i democrat guidati da Andrea Martella e le truppe leghiste di Alberto Stefani si dialoga quanto meno su una desistenza. Il primo partito di opposizione non ha chance alle regionali. Grillini non pervenuti. Sarebbe così pazza l’idea di appoggiare il listone Zaia-Lega? No, se lo scontro evocato dal Doge si trasformasse in rottura. A volerlo nobilitare con la storia, questo inciucio è discendente diretto della realpolitik Prima repubblica quando la Dc si accordava con i comunisti su base locale senza mai ammetterli nelle coalizioni del governo nazionale. In tempi molto più recenti, c’è il governo di Mario Draghi, un omnibus Lega-Fi-Pd-M5S con la sola Giorgia Meloni all’opposizione. 

 

Altri personaggi e interpreti. L’elenco dei candidabili è corposo. Il pacchetto di mischia meloniano vede schierati il veneziano Raffaele Speranzon, uno dei fondatori di Fdi, passato dal consiglio regionale in Senato nel 2022, l’altro senatore Luca De Carlo, che potrebbe pagare l’origine da una provincia elettoralmente marginale come Belluno, e l’ex assessora regionale Elena Donazzan, eletta a Strasburgo sei mesi fa, considerata troppo a destra. Per la Lega si è fatto il nome di Mario Conte, sindaco di Treviso. Uno Zaia sotto altro nome. 

 

Flavio Tosi, passato dalla Lega a Forza Italia, ha perso contro Zaia alle penultime regionali del 2015 per poi prendersi una rivalsa contro i salviniani sette anni dopo, correndo da solo nella sua Verona e regalando la poltrona di sindaco al centrosinistra guidato dall’ex nazionale di calcio Damiano Tommasi. Le sue chance di guidare un centrodestra unito sono pari a zero. A Verona dicono che punti a tornare sindaco nel 2027, dieci anni dopo la fine del suo secondo mandato.

 

Profitti in calo. La terza economia d’Italia dopo Lombardia e Lazio è lontana dagli anni d’oro. L’export tira di meno e la crescita è di solo un decimo di punto superiore a quella nazionale: +0,9 per cento contro +0,8 dell’Italia per il 2024 e +1 contro 0,9 per cento di previsione 2025. La flessione di settori come l’automotive che utilizzava la filiera nordestina ha portato a vertenze, ammortizzatori sociali e rischio di chiusura per molte Mpi. La sanità declina non diversamente dal resto dell’Italia per i disinvestimenti governativi che hanno colpito anche i Comuni con tagli sostanziali. La base zaiano-leghista vede rosso quando sente Salvini parlare dei miliardi per il ponte sullo Stretto dimenticando che la vera bomba a orologeria nei conti pubblici è la Pedemontana. Nata come project financing pubblico-privato è stata accollata al contribuente. Le agevolazioni al casello promesse da Zaia ai residenti e l’abbattimento dei pedaggi annunciato in consiglio lo scorso dicembre si tradurranno, dal febbraio 2025, in uno sconto del 60 per cento per i mezzi leggeri dal lunedì al venerdì per un massimo di due tratte giornaliere da 25 chilometri. Difficile che basti a produrre flussi di traffico sufficienti. È probabile che Salvini, da ministro, corra in soccorso accollando la Pedemontana all’Anas 2, varata ad aprile 2024 e ancora al palo.

 

A proposito di ritardi bisogna capire quando si vota. Una possibilità è la scadenza dell’ottobre 2025. Ma i tempi di nomina della giunta e delle commissioni rischiano di portare il bilancio regionale in esercizio provvisorio. Rinviare al marzo 2026 consentirebbe a Zaia di partecipare da presidente all’apertura dei Giochi. In entrambi i casi mancano molti mesi. E, lo ha detto Zaia stesso, nella politica attuale sono un’era.