RIFORME CONTESTATE
Quel che resta dell’Autonomia
Niente referendum. Ma la legge cara alle Regioni del Nord va riscritta. E nonostante l’impazienza dei leghisti non si tratterà certo di un procedimento breve
Niente referendum sull’autonomia differenziata, sì a quelli su cittadinanza e Jobs act. Ma la legge Calderoli, che non sarà sottoposta al giudizio degli italiani per l’inammissibilità costituzionale del quesito abrogativo sul quale le opposizioni (con l’eccezione di Azione) avevano raccolto oltre un milione di firme depositate lo scorso settembre, solo in parte nei prossimi mesi coinciderà con quella approvata dal Parlamento, il 19 giugno, in tempi record per il pressing della Lega su Fratelli d’Italia e Forza Italia.
La Corte costituzionale, che il 20 gennaio non ha consentito il referendum, lo scorso novembre – accogliendo parzialmente il ricorso di quattro Regioni guidate dal centrosinistra (Sardegna, Toscana, Campania e Puglia) – aveva dichiarato la stessa legge incostituzionale in 7 punti e in altri da correggere. Con la conseguenza che successivamente, essendo venuto meno l’oggetto, la Cassazione ha ritenuto decaduto il referendum “parziale” delle Regioni (le stesse quattro). Ora c’è l’incostituzionalità di quello “totale”, sull’intera legge, perché «l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari», pregiudicando «una scelta consapevole da parte dell’elettore».
La decisione è arrivata nell’ultima data utile per il verdetto sull’ammissibilità, secondo quanto prevede la legge. Una corsa contro il tempo di una Corte a ranghi ridotti: garantito il quorum per un soffio, presenti solo 11 giudici su 15 – il minimo – a causa dell’ennesima fumata nera nell’arco di numerosi mesi, la tredicesima, che appena cinque giorni prima ancora una volta, lasciando cadere nel vuoto i reiterati appelli di Sergio Mattarella, non aveva consentito l’elezione da parte del Parlamento in seduta comune dei 4 componenti da scegliere in sostituzione di quelli decaduti, alcuni da tempo. Per permettere alle Camere di procedere finalmente all’elezione sciogliendo i nodi politico-partitici prima della riunione in camera di consiglio, i giudici costituzionali hanno appunto deciso di rinviare fino all’ultimo giorno consentito. La riunione nel Palazzo della Consulta si è svolta con 5 componenti eletti dalle supreme magistrature – compreso il presidente (in quel momento ad interim) Giovanni Amoroso, togato approdato dalla Cassazione – 5 nominati dal presidente della Repubblica. Un solo giudice eletto dal Parlamento, il costituzionalista Luca Antonini, area leghista. Mancavano, appunto, gli altri quattro. La quota legata al Parlamento era pressoché assente in una riunione destinata a produrre conseguenze rilevanti sulla politica.
Alla fine, si arriva a un risultato che segna un sostanziale pareggio fra il governo e le opposizioni, secondo lo scenario che nei mesi scorsi circolava nei Palazzi e che L’Espresso aveva rivelato il 10 ottobre, anche se il bilancio, a questo punto, sarà possibile solo dopo il futuro intervento correttivo del Parlamento dall’esito incerto, nonostante il fallimento dell’iniziativa referendaria incoraggi il governo. Le opposizioni ritengono che la legge Calderoli sia stata già affossata due mesi fa dai rilievi dei giudici costituzionali. Giorgia Meloni, invece, ha ridimensionato il provvedimento che il governo presenterà in Parlamento su input della Consulta, sostenendo il 9 gennaio, nella conferenza stampa d’inizio anno, che la sentenza è «autoapplicativa», non richiede l’approvazione di nuove norme, mentre l’intervento legislativo ci sarà sulla materia dei Lep: «Stiamo già lavorando». Alla fine, il risultato potrebbe essere 1-0 per il governo.
Il costituzionalista Tommaso Frosini vede così la situazione. «Ci sarà una forma non esasperata ma moderata di autonomia differenziata, in attuazione dell’art.116 della Costituzione che prevede la possibilità per le Regioni di avere competenze diversificate. È una norma costituzionale che, sulla base di quanto emerge dai rilievi della Corte, deve trovare la sua attuazione non nella versione originaria di Calderoli. Il 40 per cento della legge non va bene, ha detto in sostanza la Consulta, ma il restante 60 resta intatto. Si invita a realizzare una legge sull’autonomia che garantisca un corretto rapporto fra le Regioni attraverso i Lep e che eviti di assegnare determinate funzioni e competenze». Il governo, peraltro, dovrà misurarsi con le Regioni in un tira e molla inevitabile. I tempi saranno lunghi nonostante l’impazienza leghista.
Con le decisioni del 14 novembre, sotto la presidenza di Augusto Barbera proprio nelle ultime settimane del suo mandato, la Corte ha consentito di trasferire alle Regioni solo «specifiche funzionali legislative ed amministrative», se giustificate dal «principio di sussidiarietà». Al Parlamento viene assegnato un ruolo centrale, in particolare nella determinazione dei Livelli essenziali di Prestazione, impedendo deleghe in bianco al governo.
L’esito positivo del ricorso alla Consulta rappresenta una vittoria dei governatori del centrosinistra, a partire dall’indisciplinato e irrequieto Vincenzo De Luca, più che dei partiti dello stesso schieramento, che avevano puntato tutto sull’iniziativa referendaria, quella che il 5 luglio, con la foto di gruppo nei giardini di Piazza Cavour, in occasione del deposito del quesito abrogativo in Cassazione, costituì politicamente il decollo del «campo largo». Tutti insieme: Maurizio Landini, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Riccardo Magi e Maria Elena Boschi che portava l’adesione di Italia Viva. Al massimo, il referendum, con una valenza anti-leghista, potrebbe essere stato d’aiuto per la riconquista dell’Umbria nelle Regionali di fine autunno